martedì 28 dicembre 2021
venerdì 24 dicembre 2021
House of Gucci - la recensione
giovedì 23 dicembre 2021
Diabolik - la recensione
Il personaggio di Diabolik ha davvero bisogno di poche presentazioni: genio del crimine, re del terrore, mago dei travestimenti, spietato e cinico nel perseguire i suoi obiettivi, ma passionale e disposto a tutto per Eva, l'amore della sua vita, altrettanto affascinante e diabolica.
Un fumetto noir scritto da due donne, le sorelle Giussani, negli anni '60, un fenomeno entrato ormai nell'immaginario collettivo italiano tanto che anche chi non ha mai letto una pagina del fumetto (ma ne esistono?) sa perfettamente chi sono Diabolik, Eva Kant e l'ispettore Ginko, ma che stranamente era stato portato al cinema unicamente nel 1968 da Mario Bava con uno sfortunato adattamento che lasciò insoddisfatti un po' tutti.
Ci riprovano, più di 50 anni dopo, i fratelli Manetti, autori di nicchia e di culto, che non sono nuovi al genere noir (a suo modo la serie tv L'Ispettore Coliandro è proprio un noir fatto e finito, con tanto di voce fuori campo) e che hanno saputo sempre sperimentare con i generi, dall'horror al musical.
C'erano molte aspettative, in un periodo di cinecomic, per questo adattamento del "comic" italiano per eccellenza, ma ancora una volta i Manetti sorprendono e ribaltano qualsiasi aspettativa, decidendo coraggiosamente di NON fare una trasposizione cinematografica del fumetto, ma semplicemente di prendere il fumetto e animarlo sullo schermo.
La ricostruzione degli anni '60 è minuziosa, ma fin dal primo fotogramma si intuisce che quelli che stiamo vedendo non sono davvero quegli anni, i personaggi di cui guardiamo le vicende non sono versioni live action della loro controparte cartacea, i loro dialoghi sono in tutto e per tutto le nuvole delle tavole di Diabolik. I due autori si disinteressano delle aspettative del pubblico, delle regole cinematografiche delle trasposizioni fumettistiche, non cercano in alcun modo di fare un film che arrivi a un pubblico più ampio possibile. Quello che ne esce è un film volutamente finto, posticcio, con una recitazione molto impostata e dialoghi usciti direttamente dai "clichè più clichè" a cui le pagine di Diabolik ci ha abituati. I tre attori protagonisti, Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastandrea, si annullano nei loro personaggi, diventano letteralmente Diabolik, Eva Kant e Ginko, facendone un'imitazione talmente perfetta che a volte ci si dimentica di star guardando immagini in movimento sullo schermo e ci si ritrova quasi ad allungare una mano per voltare pagina.
Il Diabolik dei Manetti Bros è un film che inevitabilmente dividerà pubblico e critica, alcuni lo ameranno con tutta la passione che evidentemente i suoi autori provano per il materiale originale, altri lo odieranno intensamente per il suo essere semplicemente un fan film sopra le righe. Non ci sono mezze misure.
Un po' come Diabolik, d'altronde.
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martedì 21 dicembre 2021
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martedì 30 novembre 2021
Tick, Tick... Boom! - la recensione
Sono i primi anni 90 e Jonathan Larson è impegnato con il workshop newyorkese del suo musical, una space opera rock che sta scrivendo da otto anni e che spera sia il biglietto d'ingresso nel mondo di Broadway. Tutti i suoi idoli avevano raggiunto il successo prima dei trent'anni e per Jonathan l'orologio corre... tick, tick, tick... manca una sola settimana al suo trentesimo compleanno.
L'esordio alla regia cinematografica di Lin-Manuel Miranda non poteva che essere questo, l'adattamento della piece teatrale autobiografica scritta e interpretata dal geniale autore di Rent, che qui ha le sembianze e la voce di un Andrew Garfield in odore di premi.
Andando avanti e indietro tra il palcoscenico, dove Larson racconta al suo pubblico della folle settimana che lo avrebbe portato a compiere quei fatidici trent'anni, e i flashback in cui lo vediamo scrivere un musical che non vedrà mai la luce ma che sarà in un certo senso davvero la sua rampa di lancio, Lin-Manuel Miranda dirige una vera e propria lettera d'amore sia all'autore, che è stato di così vitale importanza nel musical moderno, sia all'intero mondo del Teatro e in particolare del musical, capace di descrivere la realtà trasportandoti fuori del mondo reale, attraverso la musica, ma sempre parlando di temi molto veri.
E infatti assistiamo alla vita fallita (forse) di Larson che si sente già troppo vecchio rispetto al successo, che sente di aver perso ormai quel passaggio e di non poter recuperare. L'idea che i trenta siano gli anni in cui arrivare all'apice, è molto americana e poco italiana, così come la conseguente sensazione di fallimento che accompagna la consapevolezza che a volte la vita può andare diversamente, ma che la perseveranza ci farà raggiungere i nostri obiettivi. Una sensazione che molti hanno provato, anche in una società tanto diversa da quella americana come la nostra, dove l'età e la giovinezza hanno tutta un'altra concezione.
Allora perché Tick, Tick...Boom! risulta ugualmente tanto emozionante? Un po' perché se si conosce la triste storia di Jonathan Larson è impossibile non essere toccati dalla crudele ironia della vita e della morte, ma soprattutto perché tanto i personaggi quanto lo sfondo su cui si muovono, riescono ad avvincere lo spettatore e trasportarlo dentro la storia.
E poi, naturalmente, ci sono le musiche, che sono splendide e che è impossibile non amare durante e dopo la visione, confermando ancora una volta che Lin-Manuel Miranda è uno dei grandi del musical contemporaneo.
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lunedì 22 novembre 2021
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giovedì 18 novembre 2021
The Green Knight - la recensione
Sir Gawain e il cavaliere Verde è uno dei più rilevanti e studiati fra i poemi cavallereschi del Ciclo Arturiano, principalmente a causa della sua ambiguità e complessità simbolica rispetto ad altri poemi dello stesso ciclo. Eppure, nonostante la sua importanza letteraria e storica, non era mai stato trasposto al cinema, dove il ben più famoso Re Artù, o la storia d'amore fra Ginevra e Lancillotto, la fanno da padroni.
Ci ha pensato il giovane regista David Lowery con un adattamento che non solo riesce a regalare uno spettacolo visivo imponente, ma restituisce in modo per nulla didascalico, e anzi con un simbolismo affascinante, la potenza del testo originale e quella del mezzo cinematografico.
Durante il banchetto di natale alla corte di Re Artù (che non verrà mai chiamato per nome durante l'intero film), mentre i valorosi cavalieri della Tavola Rotonda sono intenti a raccontare le proprie storie e a divertirsi, giunge un enorme cavaliere interamente verde, con un aspetto uscito direttamente dal mondo delle fiabe e del sogno. Il cavaliere verde propone un gioco: un cavaliere dovrà farsi avanti e affrontarlo, per poter conquistare la sua imponente ascia da guerra, ma con la condizione che qualsiasi colpo gli venga inferto, esattamente un anno dopo, lo dovrà restituire uguale al cavaliere nella sua dimora, la cappella verde. Il giovane Gawain, nipote del Re e senza alcuna storia di valore da raccontare, si fa avanti e affronta il cavaliere verde, decapitandolo. Ma quello, presa la sua testa, lascia la sala ricordando a Gawain che a un anno da quel giorno, avrebbe dovuto trovarlo per ricevere quel colpo. Un anno dopo, Gawain si mette in viaggio per ritrovare il Cavaliere Verde e affrontare il suo destino, consapevole che da questa impresa potrà derivarne grande onore, o la sua morte.
La trama è semplice ed è tipica dei poemi cavallereschi, ma la particolarità di questa storia è nel suo essere allo stesso tempo atipica, con il cavaliere che si mette in viaggio non per sconfiggere un nemico, bensì per affrontare la propria probabile morte, un viaggio alla scoperta di sé stessi che Lowery abbraccia pienamente e restituisce con tutta la sua carica di simbolismi, sempre più criptici via via che il viaggio di Gawain si avvicina alla sua conclusione. Se all'inizio il giovane si avvia fiero verso il suo destino, con un piano sequenza magnifico che evidenzia la figura solitaria e quasi mitica dell'eroe, man mano assistiamo a una lenta decostruzione e poi presa di consapevolezza da parte del protagonista rispetto alle sue debolezze e soprattutto alle sue paure, in un mondo dominato dalla magia ma anche dalla morte incombente.
La regia di Lowery è particolarmente inspirata per tutte le due ore del film, con scene che sembrano uscite direttamente da un dipinto d'epoca, altre che sembrano derivare da un mondo onirico fatato e fantastico, altre ancora pregne di grandissima intimità e intensità rispetto ai singoli personaggi. La magnifica colonna sonora di Daniel Hart fa il resto, immergendo lo spettatore nelle atmosfere di un Medioevo che non è la realtà, ma un luogo dove magia e sogno si intersecano con la realtà.
Assoluto protagonista della pellicola, Dev Patel, che si dimostra un attore molto interessante e capace di dare sfumature sempre diverse a personaggi fra i più vari. Credibile sia nei momenti di più fiera cavalleria che in quelli, molto umani, di paura e codardia che il personaggio di Gawain sperimenta, il tutto unito a una presenza scenica perfetta per un film in costume. Ma lo stesso si può dire di tutto il cast, da Alicia Vikander nel doppio ruolo della Lady del Castello e di Essel, la donna amata da Gawain (e il tema del doppio è ricorrente nel film) a Joel Edgerton in quelli del Lord.
È difficile esprimere a parole l'essenza di un film come The Green Knight senza raccontarne ogni singola inquadratura, o senza scadere nella becera retorica, ma la verità è che siamo di fronte a un film che è arte cinematografica allo stato puro, un film che utilizza l'immagine per narrare la sua storia e la psicologia del suo protagonista come raramente capita.
Peccato non aver potuto goderne in una sala cinematografica.