martedì 30 ottobre 2018

First Man - la recensione


Dopo il successo di La La Land, Damien Chazelle torna nei cinema con una storia che apparentemente non ha nulla a che fare con il musical che gli ha regalato l'Oscar per la regia, e nemmeno con Whiplash, pellicola che lo ha portato alla ribalta.



In realtà ad uno sguardo più attento, in First Man - Il Primo Uomo c'è sia la malinconica storia d'amore fra l'aspirante attrice Emma Stone e il musicista jazz Ryan Gosling, che la vibrante rivalsa del batterista interpretato da Miles Teller, e anche quel pizzico di cattiveria che l'iconico Fletcher portava sullo schermo in Whiplash. C'è tutto il cinema di Chazelle nella storia di Neil Armstrong, dello sbarco sulla Luna, dell'uomo che sorpassa i suoi limiti per arrivare là dove nessuno era mai andato prima, per ritrovarsi comunque solo con se stesso, con la propria vita, i propri amori e le proprie perdite da affrontare, ma in un certo senso liberi, come se l'essere riusciti a giungere al di là di qualsiasi altra conquista umana fino a quel momento, non fosse altro che una rinascita interiore portata a compimento.

Lungi dall'essere perciò una vuota celebrazione patriottica di un'eroe americano, First Man diventa un racconto intimo su un uomo che è in realtà simbolo di un'umanità intera, ma sempre comunque un uomo.
Sicuramente grandissima parte del merito va alla regia di Chazelle e in generale all'intero comparto tecnico che crea suggestioni di immagini e musica da brivido, ma anche e soprattutto ai due interpreti principali, Ryan Gosling e Clare Foy, entrambi fautori di un'interpretazione intensa e misurata ma di grandissimo impatto emotivo.

Chi si aspetta un film adrenalinico rimarrà sicuramente deluso, First Man è il ritratto di un uomo che mischia inadeguatezza familiare, fragilità emotiva e slanci di eroismo universale con grande delicatezza, e senza mai andare fuori tema, né deviare verso la spettacolarizzazione facile o il patriottismo fine a se stesso, riesce a essere molto più che un film sul primo uomo che sia mai andato sulla Luna.
Con maestria ed eleganza, Damien Chazelle ci accompagna per due ore in un film che regala lacrime e brividi sinceri e mai forzati, dimostrandosi ancora una volta un maestro di cinema di grande emozione.

domenica 28 ottobre 2018

Disobedience - la recensione

Ancora una storia di donne per il regista cileno premio Oscar Sebastian Lelio, che per il suo debutto in lingua inglese ha scelto l'adattamento del romanzo "Disobbedienza" di Naomi Alderman.

Londra, in un quartiere periferico della metropoli vive la comunità ebreo ortodossa, in lutto per la scomparsa del rabbino capo, figura importante e molto rispettata. Questo evento porta Romit (Weisz), unica figlia del rabbino che ha abbandonato la comunità ormai da tempo, a tornare a casa per assistere al funerale del padre. Lì ritrova il cugino Dovid (Nivola), estremamente dedito alla sua fede, "figlio spirituale" e successore predestinato del rabbino defunto, ma soprattutto ritrova Esti (McAdams), che, con grande sorpresa di Romit, è ora sposata con Dovid diventando una moglie devota e una fedele credente. Tra Romit ed Esti ci sono dei trascorsi, un amore giovanile troncato, e l'incontro tra le due riaccende una incontrollabile passione che porta turbamenti all'interno della comunità.

Se si cerca sul vocabolario la parola "disobbedienza" si legge: trasgressione ad un ordine, atto di resistenza passiva alle leggi. E' esattamente quello che viene raccontato in Disobedience. Un titolo perfetto per una storia che va oltre l'amore e la passione carnale tra le due protagoniste. In una comunità rigida come quella descritta, l'arrivo di Romit, un'anticonformista che ha addosso la "macchia" della disobbedienza, crea un inevitabile turbamento in un'atmosfera soffocata in cui tutti seguono rigidamente delle regole: l'uomo comanda, tutti sono vestiti uguali, le donne indossano abiti scuri e delle parrucche per coprire i capelli, le case e i giardini sono curati e perfetti. Romit è l'elemento di rottura che risveglia in Esti non solo la passione e il desiderio fisico, ma soprattutto l'improvviso bisogno di libertà.
La disobbedienza descritta nel film non è un atto urlato, rabbioso o liberatorio, è un più un sofferto e sospirato passo verso una personale consapevolezza, verso la libertà di scelta, il libero arbitrio.



La bravura di Sebastian Lelio sta nel mostrare tutto questo in modo semplice, profondo, puntando molto sui particolari. Grazie anche a un'ottima fotografia, la descrizione della comunità e dei riti ebraici, dell'atmosfera, è talmente precisa che al regista basta immergere i personaggi nel contesto per mostrare quanto Romit sia un elemento di disturbo: i suoi capelli sciolti, il suo modo di vestire, il suo modo di parlare, le sue idee. E in questo contesto bastano pochi sguardi per cogliere il desiderio di Esti nei confronti di Romit.

Ottimo il cast. Le "due Rachel" sono stata una scelta davvero perfetta. La presenza scenica è una dote naturale di Rachel Weisz (anche produttrice del film) e lei riesce sempre a metterla al servizio del suo personaggio. In questo film incarna perfettamente e con grande naturalezza tutti gli aspetti del suo personaggio: figlia rinnegata, elemento di disturbo, pietra dello scandalo, anticonformista, oggetto del desiderio. Allo stesso modo, Rachel McAdams riesce a trasmettere la sottile ma repentina trasformazione del suo personaggio. L'intesa tra le due attrici è ottima, bastano gli sguardi, i gesti, ma anche quando non si guardano si percepisce la connessione e il desiderio tra i due personaggi. Le due attrici sicuramente catturano l'attenzione, ma non bisogna dimenticare il terzo elemento del triangolo, perché quella del film non è una storia a due ma a tre, e il terzo è Alessandro Nivola, molto bravo nel ruolo di un rabbino schiacciato dai suoi doveri ma pronto a fare uno sforzo verso, e non contro, chi "trasgredisce".

Disobedience è un ottimo film in cui, al di là della passione, della storia d'amore tra due donne, dei tabù imposti della religione, si parla di come a volte l'essere umano per affermare se stesso non può fare altro che disobbedire, e come questo sia parte stessa del suo essere.

[RomaFF13] Stan & Ollie - la recensione

Stanlio e Ollio (Oliver and Hardy in originale) sono stati probabilmente il più grande e famoso duo comico di tutti i tempi. I loro film sono ancora adesso, a distanza di decenni, divertentissimi ed è davvero impossibile non fermarsi a guardarli quando li si trova per caso in televisione.
Eppure chi erano veramente Stan Laurel e Oliver Hardy è qualcosa che quasi nessuno sa, perché separare gli uomini dai loro personaggi è dura, quando si tratta di personaggi tanto iconici.



Ci prova John Baird, prendendo spunto dal romanzo Stan and Ollie: The Roots of Comedy: The Double Life of Laurel and Hardy adattato dallo sceneggiatore Jeff Pope, in un film che vuole essere molto più che un biopic, ma un sentito e sincero omaggio agli uomini dietro la maschera.
Steve Coogan e John C. Reilly sono Stan e Oliver, aiutati da una somiglianza straordinaria con le loro controparti e un trucco di altissimo livello, tanto che dopo pochi secondi dall'inizio del film ci si dimentica di trovarsi di fronte a due attori che ne interpretano il ruolo. Non era sicuramente facile, proprio a fronte di una iconicità dei personaggi, ma loro ci riescono benissimo regalando due interpretazioni molto intense, sofferte, ma anche divertite e divertenti, che sarà difficile dimenticare molto presto.


Nonostante i ruoli che Stanlio e Ollio ricoprivano sullo schermo nelle loro comiche, Hardy era vanesio e svagato, dedito al gioco di azzardo e con una sequela di matrimoni alle spalle, mentre Laurel si può definire uno stacanovista, pignolo e con una certa mania del controllo: si occupava di scrivere tutte le battute e gli sketch del duo; sicuramente l'intellettuale fra i due, il cui carattere non facile era anche causa di scontri. Baird li mostra senza veli e senza filtri, al di là dei personaggi, mostra gli uomini con i loro difetti e le loro incomprensioni, ma soprattutto ciò che colpisce è il racconto di quello che, in fin dei conti, è stato un sodalizio lungo tutta la vita, un'amicizia profondissima e totalizzante fra due personalità complementari che avevano disperato bisogno l'una dell'altra.

Il tour in Gran Bretagna, quando i due sono ormai anziani e in una fase di declino, diventa quindi l'opportunità di esplorare il loro rapporto e in questo la presenza delle due mogli è indispensabile a fare da contraltare a quella che per certi versi è un'amicizia morbosa, ma che si rivelerà pregna di tenerezza e reciproca profonda conoscenza.



Ma se si pensasse che questo sia un film di sola emozione gli si farebbe un torto, perché nonostante la componente emotiva sia sicuramente il punto di forza della pellicola e quello che colpisce maggiormente a un primo sguardo, bisogna dare atto a John Baird di non essersi limitato a girare in modo piatto, magari riproponendo semplicemente inquadrature prese dai vecchi film del duo, ma cerca di fare qualcosa in più, movimenti di macchina insoliti e interessanti, ed è significativo che il film si apra con un lungo piano sequenza con i due protagonisti intenti in una conversazione amichevole – mentre sullo sfondo passa la vecchia Hollywood – e che poi si chiuda malinconicamente con l'ultima esibizione pubblica e una ripresa di spalle suggestiva, in controluce, che lascia sicuramente il segno.


Sarebbe stato facile fare un film per i fan di Stanlio e Ollio, ma John Baird e Jeff Pope hanno fatto di più, mettendo in scena un sodalizio professionale che è una vera e propria amicizia di una vita, divertendo ed emozionando, senza tralasciare il lato tecnico e con due interpreti che hanno dato anima e corpo a questi personaggi così importanti nella storia del cinema. 
Di film così se ne sente sempre il bisogno.

sabato 27 ottobre 2018

Bohemian Rhapsody - la recensione

Dopo una gestazione durata anni, ecco finalmente sugli schermi inglesi (e, presto, mondiali) una delle storie più incredibili dei nostri tempi, quella di Farrokh Bulsara (Rami Malek), un ragazzo di origini umili, figlio di immigrati parsi, destinato a diventare leggenda.
Il biopic dai colori accesi apre il suo sipario su un Wembley Stadium gremito, pochi istanti prima del suo ingresso sul palco, per poi riportarci indietro, quando un Freddie Mercury poco più che ventenne lavorava come facchino all'aeroporto internazionale di Heathrow, una divisa che gli stava visibilmente "stretta". Freddie scrive canzoni e sogna... Tant'è che una sera, sgattaiolando ad un concerto, conosce Brian May (Gwilym Lee) e Roger Taylor (Ben Hardy), e si fa ingaggiare come cantante per la band "Smile".
Il resto è storia della musica!

Ciò che emerge è da subito la vena creativa che contraddistingue il percorso artistico dei Queen, i quattro sono pronti a vendersi il furgone, loro unico mezzo di trasporto, per incidere il primo pezzo, a usare mestoli, pentole e ogni sorta di utensile da cucina in uno studio di registrazione, o a comporre e registrare "Bohemian Rhapsody" in un fienile. Il loro fare musica è tutto cuore, passione, e divertimento, la concezione di musica come rifugio da dipingere, decorare, arredare, e il loro sentirsi una famiglia, con tutte le delusioni e le soddisfazioni che una convivenza può portare, è lo strumento di connessione che hanno con il mondo e con il pubblico.
"I want to give them a song they can perform!", esclama Brian May, proponendo a Freddie il ritmo di "We Will Rock You". Ed ecco che quattro ragazzi, con il loro sogno, fanno (e continueranno a far) cantare generazioni di persone. La chiusura ciclica ci riporta a Wembley, durante il Live Aid del 1985, tappa finale dei 15 anni di carriera raccontati. A rendere il tutto fluido, ci sono una colonna sonora e un montaggio ben amalgamati.



Con la sua durata di ben 2h 15m, il film mette il luce un Freddie sicuro di sé, attento allo stile, curato, ricercato ed estroso, e la sua testardaggine, il suo egocentrismo, ma accentua anche le crepe del suo animo tormentato. Il conflitto interiore circa la sua sessualità è trattato con dolcezza e rispetto, il suo continuo senso di vuoto, la ricerca di evasione da una soffocante solitudine, e quella stessa famiglia che talvolta rifugge come unica cura a tutto questo dolore. Sebbene sia impossibile non versare qualche lacrima, il film continua ad essere un grido di speranza, per i sognatori, per gli amanti, per chi combatte tutti i giorni i suoi demoni, per chi sta per arrendersi.

La regia, com'è noto, fu affidata inizialmente a Bryan Singer, rimosso dall'incarico a tre settimane dalla fine della lavorazione, al quale è subentrato tempestivamente Dexter Fletcher. Ne risulta un'opera a quattro mani valida, raramente banale.
Singer ha anche firmato la sceneggiatura, molto delicata, e che apparentemente può sembrare superficiale, ma dove si vuole evidenziare non il Freddie Mercury dei rotocalchi che tutti conoscono, bensì quello più profondo, scavando in quegli aspetti che nel quotidiano si tendono a dimenticare parlando di una superstar.
Non manca qualche momento comico, i cui tempi sono molto congeniali, e che alleggeriscono un po' la complessità di alcune scene. Il trucco e la ricostruzione di outfit ed ambientazioni sono il fiore all'occhiello di questa pellicola, che sembra ipnotizzarci e portarci indietro nel tempo.

Il cast è di ottima qualità, anche se in alcune occasioni le performance risultano sottotono. Su tutti spicca ovviamente Rami Malek. Un Freddie Mercury intenso, imponente, magnetico, ma anche tenero e commovente. In alcune sequenze si fa fatica a distinguere la sua silhouette da quella delle immagini di repertorio e video ufficiali, forse anche grazie a un lip sync che inganna non solo vista e udito, ma anche il cuore... che salta qualche battito.

giovedì 25 ottobre 2018

Scorsese e DiCaprio di nuovo insieme per Killers of the Flower Moon

Si rinnova la proficua collaborazione tra il regista Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio.

L'occasione stavolta è il film Killers of the Flower Moon, adattamento del romanzo best-seller di David Grann, che la Imperative Entertainment ha appena iniziato a sviluppare. Il film sarà diretto da Scorsese, a curare la sceneggiatura sarà Eric Roth (Forrest Gump, Insider), e vedrà come protagonista Leonardo DiCaprio, coinvolto anche come produttore con la sua Appian Way.

"Quando ho letto il romanzo di Grann, ho iniziato immediatamente a vederlo, i personaggi, le ambientazioni, l’azione", ha dichiarato recentemente Scorsese. "Sapevo che ne avrei fatto un film. Sono davvero entusiasta di lavorare con Eric Roth, e di tornare a lavorare con Leo, per portare sullo schermo questa inquietante vicenda americana". Le riprese dovrebbero iniziare nell'estate del 2019.

In realtà, era da un po' che Martin Scorsese inseguiva questo progetto. Se n'era già parlato nel 2017 ma in quel caso il regista aveva ipotizzato una possibile collaborazione con un altro suo attore feticcio, Robert De Niro. Del progetto poi non se ne seppe più nulla, fino ad oggi, solo che invece di De Niro ci sarà Leonardo Di Caprio, pronto alla sua sesta collaborazione con Scorsese dopo Gangs of New York, The Aviator, The Departed, Shutter Island, The Wolf of Wall Street, a cui bisogna aggiungere anche il cortometraggio The Audition.


Ambientato negli anni '20, il libro di Grann racconta una pagina inquietante della storia americana, una serie di omicidi in Oklahoma che iniziano quando viene scoperto un giacimento di petrolio nella nazione dei nativi americani Osage. Una scoperta che portò molta ricchezza tra le persone che abitavano quel luogo, le stesse persone che poi però vennero uccise, una ad una. Questa fu una delle prime indagini della neonata FBI, che dietro la serie di omicidi scoprì una cospirazione ricordata come uno dei crimini più inquietanti della storia americana.

martedì 23 ottobre 2018

[RomaFF13] Se la strada potesse parlare - la recensione

Barry Jenkins torna alla Festa del Cinema di Roma dopo il meraviglioso Moonlight, vincitore dell'Oscar come miglior film nel 2017, e lo fa con Se la strada potesse parlare, tratto da un romanzo di James Baldwin, ed è un film tanto diverso quanto simile al precedente. 


Siamo sempre nell'America nera, quel ghetto che è diventato ormai simbolo di ingiustizia e prevaricazione senza speranza, ed è sempre una storia d'amore a essere protagonista della storia, ma dove Moonlight descriveva in tre atti distinti la crescita e la presa di coscienza di sé di Chiron, bambino che diventa uomo, qui il racconto è molto più corale e gira intorno a Alonzo, detto Fonny, e Tish, due ragazzi come tanti che sognano una vita insieme, che si amano e vivono quotidianamente la discriminazione, fino a quando questa non diventa prevaricazione, ingiustizia, e una vera e propria "caccia alle streghe"che porterà Fonny in prigione, accusato di uno stupro che non avrebbe mai potuto commettere, e Tish a una lotta senza via d'uscita per riportare il suo innamorato da lei.

Barry Jenkins ha la straordinaria capacità di raccontare storie con la delicatezza di una fiaba, di descrivere l'amore in ogni suo aspetto, che sia esso romantico o sensuale, o semplicemente la vita di tutti i giorni, senza mai diventare melenso o banale o noioso, senza fatica si rimane rapiti dalla storia di Tish e Fonny. 
Oltre la storia d'amore, questa delicatezza, meravigliosamente incarnata dalla voce e dal volto di Kiki Layne, si ripercuote su tutto, dalla famiglia di Tish, unita e piena di amore e di gioia, a quella fondamentalista e oppressiva di Fonny, finanche alla strada, quella strada che se potesse parlare racconterebbe di violenze e soprusi, di povertà e razzismo, ma anche di due giovani innamorati che camminano insieme sotto la pioggia o si abbracciano per festeggiare una vita che sta solo per iniziare.


Non è facile rimanere indifferenti davanti a quanto si vede sullo schermo e in più di un'occasione la commozione può prendere il sopravvento, ma non è mai imposta, Jenkins non spinge mai sul tasto del dramma, anche quando di dramma ce ne sarebbe moltissimo, ed è proprio questa la grande forza del suo cinema, l'abilità nel rendere naturali le emozioni, in un certo ottimismo di fondo che lascia un sorriso sulle labbra. 
Guardiamolo bene questo film, perché se con Moonlight vi era stata la sorpresa, adesso con Se la strada potesse parlare abbiamo la conferma che Barry Jenkins potrà dire la sua anche in questa stagione.

lunedì 22 ottobre 2018

Il Verdetto - The Children Act - la recensione

Il peso morale ed etico delle scelte e come questo si ripercuote nella vita personale di una figura che siamo sempre stati abituati a veder rappresentata in modo distaccato: quella del giudice.

Fiona Maye (Emma Thompson) è un giudice dell'Alta Corte Britannica, specializzata in diritto di famiglia e abituata ad affrontare con la giusta distanza emotiva qualsiasi caso le venga sottoposto, che sia un figlio conteso o la delicata separazione di due gemelli siamesi. Fiona Maye è abituata a guardare ai problemi dalla giusta prospettiva, quella della ragione, della pura applicazione della legge e della scelta del "male minore". Mentre questo distacco calcolato si ripercuote anche nella vita privata mettendo in crisi il suo rapporto con un marito pronto a cercare calore altrove, sulla scrivania del giudice arriva un nuovo spinoso caso, un ragazzo Testimone di Geova malato di leucemia che rifiuta, appoggiato dai suoi genitori, la trasfusione di sangue che potrebbe salvarlo perché vietato dal suo credo. Venendo meno al rigido protocollo che ha sempre seguito, dopo aver ascoltato tutte le parti, Fiona decide di lasciare l'aula e andare in ospedale per incontrare il ragazzo di persona. Uno strappo alla regola che aprirà un inatteso strappo anche nella sua vita.

Tratto dal romanzo "La ballata di Adam Henry" di Ian McEwan, che ha anche adattato la sceneggiatura per il regista Richard Eyre, quello che colpisce del film è il rigore, la precisione, e allo stesso tempo la semplicità, con cui vengono raccontati il privato e il pubblico del giudice Maye. La telecamera segue, fisicamente proprio, quasi pedinandola, la protagonista, nel suo lavoro, in casa, nei suoi gesti ormai automatici, dal togliersi subito le scarpe appena rientrata in casa al solito modo di bussare sulla porta dell'aula prima di entrare, nei dialoghi, e con la stessa precisione racconta quei piccoli cambiamenti che, a causa degli eventi, la portano piuttosto velocemente fuori dal suo consueto.



Precisione è anche la parola adatta per descrivere la prova del cast, anche se, ad essere sinceri, quella più adatta per Emma Thompson sarebbe "straordinaria". La prova dell'attrice è semplicemente meravigliosa, una prova di grandissima sensibilità ed equilibrio in cui ogni gesto o espressione non è mai di troppo, perfetta nel rappresentare la compostezza e la dignità del personaggio e al tempo stesso far affiorare leggermente quelle emozioni che improvvisamente la travolgono. Senza mai esagerare o esasperare. Una delle sue migliori interpretazioni degli ultimi anni. Ottimo Stanley Tucci, attore intelligente che sa fare da spalla in modo mai invadente. Bene anche la prova di Fionn Whitehead (Dunkirk).

The Children Act è un film che non lascia indifferenti e pone domande di un certo peso sul piano morale ed etico: quanto la legge, che a volte può sembrare fredda e schematica, va ad incidere sulla vita privata delle persone? Quanto delle scelte enormi e apparentemente insostenibili pesano sulle spalle di chi, perché è il suo lavoro, quelle scelte deve prenderle? Il film non dà risposte ma ragiona su questi temi e sottolinea l'importanza di farsi delle domande.

domenica 21 ottobre 2018

A Star is Born - la recensione

Terzo remake del celebre film del 1937, E' Nata Una Stella, riportato poi al cinema, nelle due versioni più famose, nel 1954 con Judy Garland protagonista, e nel 1976 con Barbra Straisand e Kris Kristofferson.

Jackson (Bradley Cooper) è famoso musicista (e sognatore) acclamato in tutto il mondo ma afflitto da una pesante dipendenza da alcool e farmaci. Dopo un suo concerto, incontra, in un locale Drag, Ally (Lady Gaga), una talentuosa cameriera con il pallino del canto che, dopo svariate bocciature ricevute da diversi produttori a causa del suo aspetto fisico, in particolare del naso, ormai si è arresa all'idea di non intraprendere più la carriera da cantante. Jackson però trova interessante la sua voce, e dopo un'intensa interpretazione de "La Vie En Rose" di Edith Piaf, decide di invitarla alla tappa successiva del suo tour per conoscerla. Il loro amore condiviso per la musica e la loro passione sbocciata sul palco, tessono le trame profonde di questa pellicola dal finale del tutto inaspettato.

La regia, che segna il debutto di Bradley Cooper dietro la macchina da presa, non è delle più coinvolgenti, la ripresa in primissimo piano e con telecamera a mano vuol essere quella di un imponente film d'autore, che poco si amalgama al resto. Il ritmo è una continua altalena tra il dilatato ed il frettoloso. Il montaggio è quello di un meccanismo mal oleato che spezza completamente alcune scene e ne esaspera eccessivamente altre.
Performance meravigliosa di una Lady Gaga fragile alla quale non siamo abituati, ma della quale non potremo più fare a meno. Bradley Cooper, con la sua interpretazione tormentata, rude, evidenziata anche da un "prepotente" accento, dà l'ennesima dimostrazione delle sue capacità. Colonna sonora dai testi struggenti, ma dalla pura anima rock.



A Star is Born si presta a molteplici letture, quella predominante è sicuramente una spiccata critica all'industria musicale così come la conosciamo oggi: modelli che ci vengono imposti, la spersonalizzazione massima dell'individuo, l'omologazione, e la ormai introvabile originalità. Ci sono poi la fragilità dell'essere umano, talvolta troppo sensibile per reggere le imposizioni del sistema, la necessità di legarsi e di tornare a qualcosa di autentico, l'amore, gli affetti... e la musica. La musica come evasione, come sfogo, come grido di aiuto, come ragione di vita.

Francesca Matteucci

venerdì 19 ottobre 2018

[RomaFF13] 7 sconosciuti a El Royale - la recensione



Drew Goddard, dopo aver scritto episodi di importanti serie televisive come Buffy e Lost, aveva sorpreso tutti con Quella casa nel bosco, un horror atipico che prendeva i cliché del genere e li ribaltava in un gioco meta narrativo sorprendente e originale, facendo del film di un esordiente alla regia uno dei migliori horror degli ultimi anni.
Ora Goddard ci prova con il noir, un genere che permette una certa sperimentazione sia nella narrazione che nella forma registica.
Nell'hotel El Royale, costruito esattamente sopra al confine tra California e Nevada, degli sconosciuti si ritrovano ognuno con i propri segreti da difendere nel corso di una notte.

 L'El Royale, personaggio a sé stante con i suoi ambienti rétro e i corridoi bui che si affacciano direttamente nella vita privata dei suoi ospiti, diventa perciò teatro di speranze di redenzione, voglia di rivalsa, ma anche di intrighi e borse piene di soldi da ritrovare.
La scenegiatura di Goddard è precisa e ritmata, con una divisione in capitoli che potrà ricordare a molti Quentin Tarantino, una certa estetica pulp ma senza le esagerazioni fumettistiche caratteristiche del regista del Tennessee, e un saltare fra i diversi punti di vista con un ottimo montaggio, che rioffre la stessa scena da angolazioni sempre diverse, in un gioco di scatole cinesi coinvolgente e affascinante.
Come avveniva in Quella casa nel bosco, anche qui si gioca con i cliché del genere usandoli in un certo senso per sovvertire le aspettative dello spettatore: nulla è ciò che sembra e qualsiasi cosa si era ipotizzato viene spazzata via, ribaltata dalla penna dell'autore.





Il cast stellare chiude il cerchio, con le straordinarie doti canore di Cynthia Erivo (la sua voce accompagna tutto il film ed è fondamentale in molti frangenti) a giganteggiare su tutto, si apprezza anche particolarmente un Chris Hemsworth che, fuori dal Marvel Cinematic Universe, dimostra di saperci fare anche in ruoli più "oscuri", ma risulta comunque difficile non elogiare l'intero cast in un film che fa della coralità, del non avere un vero protagonista, uno dei suoi principali leit motiv.
Un noir con una punta di pulp che fa volare via i 141 minuti di durata come se fossero molti di meno, non si poteva chiedere apertura migliore a questa Festa del Cinema.

giovedì 18 ottobre 2018

Soldado - la recensione


Nel 2015, con Sicario, il regista canadese Denise Villeneuve aveva portato la lotta al narcotraffico e ai cartelli su un livello nuovo, film che univa magnificamente azione, morale e introspezione grazie anche dei personaggi sfaccettati e profondi.
Non si sentiva la necessità di un seguito a quello che era un film perfettamente compiuto in sé stesso, ma sicuramente la notizia che a dirigerlo sarebbe stato Stefano Sollima prometteva bene, dato che il regista italiano ha dato prova di saperci fare con il noir, sia in tv che al cinema, con le serie Romanzo Criminale e Gomorra e i film A.C.A.B. e Suburra.



E infatti Sollima mantiene le aspettative, regalando grandissima azione, con un paio di sequenze non solo girate molto bene ma anche di grande tensione, con la camera che stacca alternativamente su più fronti così da farci entrare nella scena e partecipare anche emotivamente.
La componente d'azione è sicuramente la parte più riuscita, la ruvidezza dell'ambiente e dei personaggi è percepibile, quello che però manca è la potenza drammatica e narrativa del suo predecessore.
La mancanza del personaggio di Emily Blunt, vero contraltare morale della vicenda in Sicario, si fa sentire, tutto risulta meno compatto e più sfilacciato, anche i personaggi di Alejandro e Matt, interpretati da Benicio Del Toro e Josh Brolin, ne risentono, soprattutto il secondo che viene messo in ombra diventando quasi di contorno.

Sicuramente il film è un thriller d'azione di altissimo livello e non c'è dubbio che da qui Stefano Sollima potrebbe lanciarsi nella produzione hollywoodiana, ma ci saremmo aspettati un po' di più sul piano narrativo, alla luce di quanto fatto da Villeneuve, e considerando che tutto sembra far presagire a un terzo capitolo.

martedì 16 ottobre 2018

Charlie's Angels - Kristen Stewart in azione sul set!

Sono iniziate in Germania le riprese del nuovo Charlie's Angels, adattamento della celebre serie tv stavolta diretto dall'attrice Elizabeth Banks.
Le protagoniste del film, i nuovi "Angeli di Charlie", saranno Naomi Scott, Ella Balinska, e Kristen Stewart. E proprio quest'ultima è stata fotografata sul set, insieme a Elizabeth Banks e Jonathan Tucker, durante alcune scene d'azione.






Altre foto dal set a questo link.


Nel cast del film ci saranno anche Sam Claflin, Luis Gerardo Méndez, Jonathan TuckerPatrick StewartDjimon Hounsou, e la stessa Elizabeth Banks.
Il reboot sarà basato sulla serie tv ma allargherà il campo d'azione a livello globale, la Townsend Agency infatti sarà un servizio d'intelligence attivo in tutto il mondo, con tante squadre di "Angeli" in azioni in diverse parti del mondo. Il film si concentrerà su una di queste.

Uscita fissata al 27 settembre 2019.

lunedì 15 ottobre 2018

Animali Fantastici - Johnny Depp parla di Grindelwald, J.K. Rowling, e del terzo film.

E' uno dei film più attesi dell'anno, Animali Fantastici: I Crimini di Grindelwald, e, come sappiamo, grande protagonista di questo secondo capitolo sarà il potente mago oscuro Gellert Grindelwald.

Ad interpretarlo nella saga è Johnny Depp, che recentemente, in due occasioni, ha parlato del personaggio, dell'incontro "commovente" con la scrittrice J.K. Rowling, del mondo di Harry Potter, e dell'inizio delle riprese del terzo film di Animali Fantastici.

L'attore, che ha dichiarato di essere un grande fan dei libri e dei film di Harry Potter, non ha nascosto la sua ammirazione per J.K. Rowling, e durante un incontro allo Zurich Film Festival, ha raccontato come è stato coinvolto in questa nuova saga e come la scrittrice l'abbia commosso.
"È stato splendido, è saltato fuori dal nulla. All'improvviso mi hanno detto che J.K. Rowling voleva parlarmi. Ho incontrato alcuni produttori, il regista, e poi con J.K. abbiamo chiacchierato a lungo su di Grindelwald. Mi ha detto una cosa che non mi aspettavo di sentire da lei, perché i dettagli dei suoi personaggi e del suo mondo magico sono sconvolgenti. Mi ha detto: “Non vedo l’ora di scoprire cosa farai con il personaggio”. Me lo ha consegnato con un certo grado di fiducia e la cosa mi ha commosso, mi ha lasciato senza parole. "



Spinto dalla fiducia di J.K. Rowling, Johnny Depp ha iniziato a lavorare su Grindelwald, e ha raccontato la creazione del personaggio.
"Mi sono immerso nella creazione, mi sono fatto le mie idee, e quando sono arrivato sul set è piaciuto a tutti. Grindelwald è un personaggio interessante. E' convinto di agire per il bene superiore, e ci sono state tante persone nel mondo della politica che la pensavano allo stesso modo. È fermo nelle sue convinzioni, non è un personaggio divertente, non è buffo. Ho adorato interpretarlo perché c’è stato molto spazio per provare cose diverse. È stato interessante lavorare su un personaggio che è praticamente un fascista, ma interpretarlo come un mago potente, manipolatore e ma anche sensibile e caritatevole. Le possibilità in quel mondo sono enormi, perciò puoi sperimentare tanto. È stato bellissimo."

Nell'intervista a EW, l'attore ha spiegato anche perché Grindelwald ha un occhio diverso dall'altro, una scelta precisa per caratterizzare il personaggio.
"Ho visto Grindelwald come più di un individuo, se capisci che intendo. Mi ha dato l'impressione che potesse essere due persone. Gemelli in un corpo solo. Quindi l'occhio diverso rappresenta l'altra parte di lui. Un po' come se avesse un cervello per ogni occhio, un gemello albino che si trova da qualche parte dentro di lui."

L'attore poi ha svelato quando inizieranno le riprese del terzo capitolo.
"Non vedo l’ora di cominciare il prossimo film, dovremmo partire a metà dell’anno prossimo."

Quindi la produzione tornerà sul set la prossima estate. In attesa di notizie sul terzo capitolo, aspettiamo con ansia il secondo, che sarà nelle sale dal prossimo 15 novembre.

venerdì 12 ottobre 2018

22 Luglio - la recensione


Dopo aver diretto grandi saghe di azione come quella di Jason Bourne e aver dimostrato di saper affrontare anche fatti reali e crudi con United 93, ma soprattutto il bellissimo Captain Philips, Paul Greengrass torna ad occuparsi di cronaca raccontando dell'attentato che il 22 Luglio 2011 sconvolse la Norvegia: un uomo che, dopo aver fatto esplodere una bomba nel pieno centro di Oslo come diversivo, effettua una strage di ragazzi nell'isola di Utoya.

L'approccio scelto da Greengrass (regista e sceneggiatore del film) è diverso da quanto ci si potrebbe aspettare: ci si trova davanti a un vero e proprio film corale, in cui i punti di vista sulla vicenda sono molteplici. Se da una parte abbiamo le vittime, impersonate soprattutto da Viljar, sopravvissuto per miracolo alla carneficina, con ancora pesanti strascichi fisici ma soprattutto psicologici, dall'altra c'è l'attentatore Breivik, senza alcun rimorso per quanto ha fatto, non tentenna mai fino alla fine, nemmeno davanti alle parole delle vittime e delle loro famiglie. Ma non mancano nemmeno i punti di vista della politica, incarnata dal Primo Ministro, e soprattutto quello tormentato dell'avvocato difensore di Breivik, personaggio fra i più interessanti e sfaccettati per come riesce a mantenersi in equilibrio fra il dovere di assicurare a chiunque una difesa, e la consapevolezza di trovarsi a difendere qualcuno che, in coscienza, non può avere nessuna attenuante.
Muovendosi con grande naturalezza tra i diversi personaggi, Greengrass riesce a essere molto meticoloso nella ricostruzione storica dell'attentato e allo stesso tempo dare grande risalto alla componente emotiva, alla tragedia non solo di chi da quell'inferno non è uscito vivo ma anche al dramma dei sopravvissuti che ne porteranno per sempre le cicatrici, visibili ma ancora più spesso invisibili eppure profonde.


A coronare il tutto ci sono i paesaggi innevati della Norvegia, con una fotografia molto suggestiva.
Nonostante le più di due ore di durata, 22 Luglio non risulta mai pesante o noioso, non ambisce a essere un dramma da lacrima facile, né una denuncia politica, ma rimane un film sempre onesto con se stesso e, proprio per questo motivo, estremamente piacevole.

lunedì 8 ottobre 2018

Venom - la recensione

Venom molto probabilmente era un cinecomic di cui non sentivamo il bisogno, e in effetti è così.
In un panorama cinefumettistico come quello odierno, costellato dal decennale successo dell'Universo Cinematografico Marvel e affiancato da un disastroso universo DC, spunta fuori Venom, un film effettivamente fuori tempo massimo per stile narrativo, ma che comunque riesce ad intrattenere lo spettatore senza troppe pretese.

I problemi contenuti all'interno del lungometraggio sono molteplici e già palesi anche nei vari materiali promozionali: protagonisti poco carismatici, una CGI (a volte) decisamente poco efficiente, una regia di Ruben Fleischer (Benvenuti a Zombieland) priva di personalità, scene action confusionarie e inutilmente allungate. Ma soprattutto il problema, per un film con queste premesse, basate su un personaggio smaccatamente violento, è proprio la mancanza di una violenza palese che in molti si sarebbero aspettati. Tutto è edulcorato da un rating PG-13 farcito con un umorismo abbastanza spicciolo che trasforma il "terrificante" simbionte protagonista in un personaggio adorabile, troppo adorabile.



Nonostante questo, se non si tiene conto di passaggi tagliati con l'accetta, una narrazione zoppicante e quanto precedentemente detto, Venom risulta comunque gradevole. Un intrattenimento da primi anni 2000 arrivato un po' in ritardo ma che comunque non risulta il disastro consistente che si prospettava inizialmente. Un futuro per il "Venom-verse"? Magari aggiustando il tiro potrebbe ancora funzionare.

sabato 6 ottobre 2018

007 - "Non ci sarà mai un James Bond donna", parola della produttrice.

In questi anni si è parlato molto di un possibile cambio di genere del personaggio di James Bond. Sarà possibile in futuro vedere una donna nei panni di 007?

La risposta è no, e a dirlo è la produttrice della saga Barbara Broccoli.
Intervistata dal giornale The Guardian, la produttrice è stata piuttosto categorica nella sua risposta. "James Bond è maschio. È un personaggio maschile. E' stato scritto come un maschio e resterà maschio per sempre", ha detto Barbara Broccoli, "E va bene così, non dobbiamo trasformare personaggi maschili in femminili, dobbiamo solo creare più personaggi femminili, con delle storie adatte a quei personaggi femminili". Un ragionamento assolutamente condivisibile.

La produttrice ha comunque sottolineato i cambiamenti il personaggio hanno avuto nel tempo, rimanendo fedele a se stesso ma evolvendosi e adattandosi ai tempi.
"Bond non può essere considerato un franchise femminista, soprattutto perché le persone tendono a fare riferimento ai primi film. È stato scritto negli anni '50, quindi ci sono alcune cose nel DNA di Bond che probabilmente non cambieranno mai", ha spiegato Barbara Broccoli, "Ma in compenso è cambiato il mondo, e credo che Bond si sia evoluto e trasformato negli anni. Ho cercato di fare la mia parte, soprattutto con i film di Daniel Craig, e credo che la saga sia diventata molto più attuale per come descrive le donne".
Anche in questo caso non si può che dar ragione alla produttrice, negli ultimi capitoli della saga non abbiamo più visto le classiche Bond girl, ma personaggi femminili molto più sfaccettati e attivi sulla scena.


Infine la Broccoli si è detta assolutamente favorevole a una regista donna alla guida di un film della saga. Intanto però il prossimo capitolo, il cui titolo provvisorio è Bond 25, sarà diretto da Cary Fukunaga (True Detective, Beasts of No Nation), chiamato a sostituire Danny Boyle che ha lasciato la regia a causa di "divergenze creative" con la produzione e con il protagonista Daniel Craig.

Il prossimo 007 arriverà nei cinema nel 2020.

venerdì 5 ottobre 2018

Roma FF13 - il programma della Festa del Cinema di Roma 2018

E' stato presentato poco fa il programma della tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, che si terrà dal 18 al 28 ottobre all'Auditorium Parco della Musica e in altri luoghi della Capitale.

Tra i titoli della selezione principale, gli eventi speciali, le retrospettive, e i 14 incontri ravvicinati, il programma della festa si presenta come molto interessante.

La Selezione Ufficiale offre 38 film, tra cui titoli molto attesi, tra cui: The Old Man and the Gun, con Robert Redford; Boy Erased, con Nicole Kidman, Lucas Hedges e Russell Crowe; Beautiful Boy, con Steve Carell e Timothée Chalamet; Kursk, con Colin Forth, Lea Seyodux e Matthias Schoenaerts; il nuovo capitolo della saga Millennium, Quello che non Uccide; Stan & Ollie, con John C. Reilly e Steve Coogan, già confermati sul red carpet; il nuovo Halloween, con Jamie Lee Curtis; The Miseducation of Cameron Post, con Chloe Grace Moretz, film che ha vinto il Gran Premio della Giuria all'ultimo Sundance.

Già annunciato come film d'apertura Bad Time at the El Royale, con Chris Hemworth, Dakota Johnson, Jon Hamm, e Jeff Bridges. A chiudere la Festa invece sarà il nuovo film di Paolo Virzì, Notti Magiche.

Decisamente interessanti gli incontri ravvicinati, che quest'anno vedranno protagonisti, tra gli altri, anche Martin Scorsese, che sarà premiato con il Marco Aurelio alla Carriera, Isabelle Huppert, Sigourney Weaver, Giuseppe Tornatore, Michael Moore, che presenterà il suo ultimo film, e Cate Blanchett, che porterà alla Festa il film fantasy Il Mistero della Casa del Tempo, di Eli Roth.




Ecco l'elenco dei film. Per tutte le info, potete andare sul sito ufficiale della Festa del Cinema di Roma.

Selezione Ufficiale

- AMERICAN ANIMALS, di Bart Layton
- BAD TIMES AT THE EL ROYALE, di Drew Goddard (film d'apertura)
- BAYONETA, di Kyzza Terrazas
- BEAUTIFUL BOY, di Felix Van Groeningen
- CORLEONE IL POTERE ED IL SANGUE - CORLEONE LA CADUTA, di Mosco Levi Boucault
- CORRENDO ATRÁS, di Jeferson De
- DIARIO DI TONNARA, di Giovanni Zoppeddu
- ETER, di Krzysztof Zanussi
- FAHRENHEIT 11/9, di Michael Moore
- FØR FROSTEN, di Michael Noer
- FUNAN, di Denis Do
- THE GIRL IN THE SPIDER’S WEB, di Fede Álvarez
- GREEN BOOK, di Peter Farrelly
- HALLOWEEN, di David Gordon Green
- THE HATE U GIVE, di George Tillman Jr.
- HERMANOS, di Pablo Gonzaléz
- THE HOUSE WITH A CLOCK IN ITS WALLS, di Eli Roth
- IF BEALE STREET COULD TALK, di Barry Jenkins
- AN IMPOSSIBLY SMALL OBJECT, di David Verbeek
- JAN PALACH, di Robert Sedlácek
- KURSK, di Thomas Vinterberg
- LIGHT AS FEATHERS, di Rosanne Pel
- THE LITTLE DRUMMER GIRL, di Park Chan-wook
- MERE PYAARE PRIME MINISTER, di Rakeysh Omprakash Mehra
- MIA ET LE LION BLANC, di Gilles de Maistre
- MONSTERS AND MEN, di Reinaldo Marcus Green
- LA NEGRADA, di Jorge Pérez Solano
- LAS NIÑAS BIEN, di Alejandra Márquez Abella
- THE OLD MAN & THE GUN, di David Lowery
- POWRÓT, di Magdalena Łazarkiewicz
- A PRIVATE WAR, di Matthew Heineman
- SANGRE BLANCA, di Barbara Sarasola-Day
- STAN & OLLIE, di Jon S. Baird
- THEY SHALL NOT GROW OLD, di Peter Jackson
- THREE IDENTICAL STRANGERS, di Tim Wardle
- TITIXE, di Tania Hernández Velasco
- IL VIZIO DELLA SPERANZA, di Edoardo De Angelis
- WATERGATE, di Charles Ferguson

Tutti ne Parlano

- BOY ERASED, di Joel Edgerton
- DA XIANG XI DI ER ZUO (AN ELEPHANT SITTING STILL), di Hu Bo
- DEAD IN A WEEK: OR YOUR MONEY BACK, di Tom Edmunds
- THE MISEDUCATION OF CAMERON POST, di Desiree Akhavan

Eventi Speciali
- NOTTI MAGICHE, di Paolo Virzì

mercoledì 3 ottobre 2018

L'uomo che Uccise Don Chisciotte - la recensione

Alla fine Terry Gilliam ce l'ha fatta. Il suo Don Chisciotte è finalmente approdato al cinema, catapultando gli spettatori nel peculiare mondo del regista statunitense (naturalizzato britannico, ricordiamo) che per oltre 20 anni ha tentato di portare questa sua creatura sul grande schermo.

L'Uomo che Uccise Don Chisciotte è Gilliam allo stato puro: il Gilliam malinconico, sognatore, teatrale, disfattista, romantico, visionario, pessimista, ironico, e chi più ne ha più ne metta. Lo stesso essere del regista pervade la pellicola donando al progetto l'unicità che si merita. Perché solo Gilliam può essere Gilliam. Fortunatamente!
La meraviglia estetica sorprende incredibilmente anche dopo tutti i lavori a cui il regista ci ha abituato nel corso degli anni. Bellezza arricchita da due interpretazioni davvero sentite e toccanti (e ovviamente esasperate in maniera sublime), ovvero quelle di Jonathan Pryce (Don Chisciotte) e di Adam Driver (Toby). Quest'ultimo molto probabilmente offre la migliore interpretazione della sua carriera fino ad ora (senza esagerazioni).


Un film dai molti generi e dalle numerose interpretazioni e letture, alcune delle quali anche piuttosto letterali e crude nella messa in scena, sequenze grottesche e suggestive che mantengono l'attenzione dello spettatore sempre alta e in continua mutazione.

L'Uomo che Uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam è un nuovo titolo che entra con gran merito nei migliori film che il regista abbia mai portato in scena.

martedì 2 ottobre 2018

BlacKkKlansman - la recensione


Nessuno con queste idee potrebbe mai essere eletto presidente! esclama Ron Stallworth, il protagonista interpretato da John David Washington in una non molto velata allusione ai giorni nostri, prima di essere tacciato di ingenuità dagli altri presenti. Le parole di Ron sono il manifesto perfetto del film di Spike Lee, chiara denuncia all'America di Trump, alla violenza della polizia, al governo appoggiato dal Ku Kux Klan e a Trump stesso, il tutto condito da un'ironia e un sarcasmo prorompenti.
Un nero che, con la complicità di un collega bianco ed ebreo (Adam Driver, sempre ottimo) si infiltra nel KKK e riesce a diventare pappa e ciccia nientemeno che con il Gran Maestro David Duke è già di per se stessa ironica e smaschera con grande maestria le ipocrisie e il razzismo mascherato da buoni propositi ancora tristemente radicati nella società statunitense (ma purtroppo non solo in quella), se poi si aggiungono atmosfere da poliziesco anni '70 si arriva ad avere un film che riesce magistralmente a essere allo stesso tempo di grande intrattenimento e di fortissima denuncia, cambiando con naturalezza registra dal comico al satirico al drammatico senza mai perdersi.

Il dualismo del conflitto fra neri e bianchi e più generalmente fra oppressi ed oppressori. è il perno centrale della pellicola, dualismo che si concretizza nell'abbondanza di inquadrature sghembe, tagliate, doppie, e con il vero e proprio sdoppiamento del protagonista stesso, Ron, a cui subentra come "controfigura" il collega Flip, bianco, ebreo senza averci mai davvero pensato, come dirà lui stesso, che si ritrova messo di fronte non solo all'oppressione subita dai neri, ma al fatto di essere parte di una minoranza oppressa lui stesso.



Spike Lee è un regista che non le ha mai mandate a dire, ma in questo caso fa anche di più, usando il passato (e una storia, come di ricordano i caratteri cubitali a inizio film, F***MENTE VERA) per parlare di presente senza filtro alcuno, non con velate allusioni ma con colpi ben mirati e chiari, fino al finale in cui le immagini reali si sostituiscono a quelle più rassicuranti e patinate della finzione cinematografica, riportandoci bruscamente ai giorni nostri, ai morti, alla violenza. 
Un film che ha fatto e continuerà a far parlare di sé per le idee politiche fortemente espresse dall'autore, ma si spera anche per l'indubbio valore artistico di un film che merita di poter dire la sua durante la stagione dei premi.