venerdì 30 giugno 2017

Okja - la recensione

Con l'avvento e la diffusione di Netflix, tanti nomi del cinema e della televisione si sono avvicinati alla piattaforma. Uno di questi, che spicca per importanza, è sicuramente quello di Bong Joon Ho. Il regista coreano, creatore di Snowpiercer, ha diretto, per Netflix il film Okja.

Nel 2007 per cercare di far fronte al sovrappopolamento e, quindi, alla conseguente scarsità di cibo, la Mirando Corp. decide di sviluppare una nuova specie animale, il "super-maiale". Sono animali geneticamente modificati e, per acclimatare il pubblico alla novità, vengono affidati a 26 allevatori nel mondo. A 10 anni dalla consegna, i maiali verranno valutati ed il più grande verrà premiato in pompa magna a New York. Okja è la maialina affidata ad un agricoltore coreano, la quale crea un legame speciale con Mija, la nipotina del contadino. Tra concorsi di bellezza per maiali, associazioni per i diritti animali, megacorporazioni malvagie, il film si intride di dolcezza, quanto di azione, perché i problemi non mancheranno. Il rapporto tra Mija e Okja viene messo a dura prova.

Dopo accesissime polemiche a Cannes, con critiche sprezzanti da parte della giuria, arriva, il film in contemporanea mondiale sulla piattaforma. La proiezione al Festival venne interrotta per quello che è stato definito un problema tecnico. Accompagnato anche da fischi e versi di disapprovazione, successivamente la kermesse francese ha emesso un comunicato di scuse per le difficoltà tecniche.

Ora che è disponibile per tutto il pubblico, dispiace che sia stato accompagnato da gravi difficoltà e osteggiato, perché Okja è davvero un buon film. Con paesaggi pittoreschi, messaggi di amore per il pianeta ed una storia dolceamara, si configura quasi con un Live Action dello Studio Ghibli.
La sceneggiatura è lineare, non perde tempo, se non per costruire l'affetto tra Okja e la ragazza, mantenendo un tono quanto più disilluso possibile.

Il film, co-produzione americana-coreana, gode di nomi di primissimo livello, che interpretano personaggi fumettosi e molto caratterizzati.
Paul Dano nella solita forma smagliante, Jake Gyllenhall insolitamente cartoonesco, la giovanissima Han Seo-hyun al debutto in una produzione occidentale, ma anche Giancarlo Esposito e l'eccelsa Tilda Swinton e tanti altri, confezionano un pantheon di caricature che accompagnano lo spettatore dall'inizio alla fine senza annoiare.

"Ready or not, here I come", questo è l'urlo di Netflix all'industria cinematografica mondiale.

mercoledì 28 giugno 2017

American Gods (Stagione 1) - la recensione

La serie tratta dal romanzo culto American Gods è stata certamente una delle serie più attese dell'anno, una delle più attese di sempre fin da quando, nel 2011, ne annunciarono la produzione per il canale statunitense Starz (lo stesso di Spartacus, ma anche di un altro adattamento dal cartaceo, ovvero Outlander). I nomi coinvolti, poi, non hanno fatto che acuire la curiosità e aumentare l'hype, soprattutto se si considera che Bryan Fuller, showrunner designato (e lo stesso autore Neil Gaiman come produttore esecutivo) può vantare non solo una carriera decisamente interessante, ma anche un'appassionata fanbase.


Nel corso degli otto episodi che compongono questa prima stagione, assistiamo, possiamo dire, a quello che è un lungo incipit, una sorta di assaggio di quanto vedremo in futuro, uno spiraglio su quello che una storia e un romanzo come American Gods può riservare.
La trama è più o meno nota: il riservato Shadow Moon viene rilasciato di prigione qualche giorno prima del previsto perché sua moglie Laura è morta in un incidente stradale; durante il viaggio in aereo per tornare a casa e assistere al funerale, si imbatte nel misterioso Mr Wedsnday che lo assume come guardia del corpo e autista, portandolo in giro per la periferia degli Stati Uniti per assoldare gli Antichi Dei, unendoli in una battaglia contro le moderne divinità del denaro e della tecnologia.

Con una premessa apparentemente semplice, quasi lineare, il romanzo di Gaiman si snodava in una lunga storia on the road, dove antiche leggende, miti, mondi nascosti e una certa dose di fantasy si intrecciavano con una delle più interessanti disamine della società americana mai scritte, dove l'occhio esterno di Gaiman, un inglese trapiantato in America, focalizzava in maniera lucida e diretta le più grandi virtù e i più sudici vizi di un paese costruito sull'immigrazione e la coesistenza di diverse culture.
Nonostante sia stato pubblicato nel 2001, American Gods riesce a essere ancora straordinariamente attuale e questo Bryan Fuller lo sa perfettamente, sfruttandone appieno il potenziale politico nell'America di Trump dei giorni nostri. 

I tempi dilatati, la “storia nella storia”, le vicende apparentemente slegate fra loro, presenti nel romanzo, sembrano allo stesso tempo uscire dalla mente di un autore come Fuller che fa del visionario, della regia attenta al dettaglio, dello slow motion e della fotografia piena di contrasti il suo marchio di fabbrica. Saltano subito all'occhio richiami visivi ad Hannibal, il suo ultimo lavoro, ma anche ai precedenti Pushing Daisies, con il racconto nel racconto, e all'umorismo macabro che caratterizzava Dead Like Me. Ed è allo stesso tempo molto diverso da tutti i suoi precedenti lavori, perché molte scelte visive sono chiaramente ispirate ai fumetti di Gaiman e in particolare ad alcuni fra gli albi più colorati di Sandman, tanto che non risulterebbe strano se nel pantheon di antichi e nuovi Dei facessero la loro comparsa anche gli Eterni, protagonisti del fumetto in questione.

Anche la scelta del cast era importantissima per poter riproporre sullo schermo un romanzo che ha nel suo essere principalmente visione più che semplice scrittura. 
Ian McShane giganteggia nei panni di Mr Wedsnday, perfetto nel restituire allo spettatore la sensazione che, dietro le sue parole, ci sia sempre dell'altro, che nulla dei suoi gesti è casuale, che nonostante non ci si possa fidare di lui qualcosa ci attira irrimediabilmente. Shadow, il Ricky Whittle già visto nella serie The100, risulta irrimediabilmente penalizzato nel confronto continuo con McShane, ma riesce comunque a trasportare su schermo la confusione di un personaggio non facile, in quanto estremamente riservato e silenzioso, di cui è semplice comunicare pensieri e sensazioni sulla carta, ma molto difficile farlo on video. 
Simbolo, tuttavia, della riuscita di questa trasposizione è la Media di Gillian Anderson, trasformista capace di passare con disinvoltura da Lucille Ball a David Bowie, da Marilyn Monroe a Judy Garland, cambiando non solo aspetto, ma modo di parlare, di muoversi, cambiando anche il mondo che la circonda.


Molto del fascino di questa prima stagione è principalmente visivo, infatti, perché il viaggio non è che appena iniziato e tutto è ancora davanti a Shadow e allo spettatore. Molti hanno storto (e storceranno) il naso di fronte alla lentezza della trama, alle frequenti digressioni, ma poco si può fare, American Gods non era un romanzo di intreccio, era un romanzo di mente, una storia fatta di altre storie, di personaggi che raccontano, di arrivi in America, di leggende e mitologia, in questo la serie è estremamente fedele alla controparte cartacea, tanto che i lettori si sono ritrovati più volte a guardare scene e dialoghi identici a quelli del romanzo.

Non è una serie per tutti, bisogna venire a patti con una trama dilatata, con i momenti in cui ci si sente confusi, in cui è lo spettatore, così come fu il lettore, a dover mettere insieme i pezzi.
Il finale di stagione rivela, ma non spiega, lasciando la sensazione di non aver ancora visto niente, eppure di aver visto qualcosa di magnifico. 
E ci invita ad avere fede.


Mr. Wednesday: Do you believe?
Shadow: I believe.
Mr. Wednesday: What do you believe, Shadow?
Shadow: Everything.

lunedì 26 giugno 2017

Transformers: L'Ultimo Cavaliere - la recensione

Michael Bay, dopo le consuete smentite di un addio al franchise che accompagnano ogni capitolo cinematografico di Transformers, torna a dirigere per la quinta volta un film della saga, ovvero L'Ultimo Cavaliere. Sarà anche "l'ultimo" per Bay? Impossibile appurarlo, visto la scarsa attendibilità del regista, ma forse, per svariate ragioni, dovrebbe esserlo.

L'Ultimo Cavaliere è infatti il secondo capitolo più moscio di tutta la saga insieme al suo predecessore, L'Era dell'Estinzione. Non c'è più quel cuore vivo e pulsante dell'intrattenimento che caratterizzava il primo , il secondo e (in parte) il terzo capitolo. L'idea di star osservando un prodotto trascurato si fa sempre più concreto ad ogni minuto che passa.

Sorvolando le incongruenze strutturali della continuity stessa della serie, L'Ultimo Cavaliere, principalmente nella prima parte, offre solamente sequenze maldestramente velocizzate e fastidiosamente slegate tra loro, grazie ad un montaggio inesistente ed estremamente irritante (ai limiti dell'imbarazzante).

La seconda parte fortunatamente prende un attimo di respiro e riesce a scorrere con maggior fluidità, proprio come accadeva nei primi due capitoli. Nonostante questo però niente riesce a salvare una traballante struttura della trama condita con gli ennesimi, e comunque spettacolari, effetti speciali che non rinnovano nulla nell'immaginario dei Transformers.

Il futuro del franchise, come sappiamo è già scritto (il prossimo anno arriverà il primo spin-off dedicato a Bumblebee e in seguito il sesto capitolo della saga), anche se una lunga pausa dal mondo di Optimus Prime e degli altri Transformers potrebbe solo giovare all'intero franchise targato Bay.

domenica 18 giugno 2017

How to Talk to Girls at Parties - la recensione

Londra, 1977. Mentre in città si festeggia il Giubileo della Regina, Enn e i suoi amici si imbucano a una festa dopo essere stati a un concerto punk. Qui si imbattono in bellissime ragazze e personaggi insoliti, senza sapere che quelle persone non sono altro che extraterrestri in visita sulla Terra.


Dal racconto breve dello scrittore Neil Gaiman, già trasposto in fumetto da Gaiman stesso, John Cameron Mitchell trae un film intero, ampliandone la storie e le possibilità, donando un background ai personaggi e un "cosa accade dopo" alla festa aliena. Non è facile inquadrare How to talk to girls at parties perché niente di quello che si vede sullo schermo è lineare: non è lineare la storia, non lo sono i personaggi, non lo è la regia.

Come in un videoclip punk le immagini veloci, frenetiche, sfocate ci introducono alla periferia londinese e alla sottocultura che stava nascendo proprio in quegli anni, popolata di figure eccentriche. Umani e alieni si confondono, tanto che gli extraterrestri non appaiono così insoliti nonostante l'assurdo sia una costante nella loro rappresentazione. E poi, sotto tutto il contorno di stranezze, c'è una storia d'amore semplice e fresca, quella fra il timido Enn e l'aliena Zan, personaggio sopra le righe eppure tremendamente adorabile nella sua ingenuità, magnificamente interpretato da Elle Fanning.
Quel che si percepisce più chiaramente è il divertimento, quanto regista, produttori, costumisti e l'intero cast si siano divertiti nel girare questo film, in particolare colpisce un'insolita Nicole Kidman regina del punk (meravigliosa, con quel trucco e quei costumi ricorda un po' David Bowie in Labyrinth) e Ruth Wilson, algida e sensuale aliena dal costume decisamente insolito, e Matt Lucas (che i fan di Doctor Who riconosceranno sicuramente), a tratti inquietante.

Il comparto tecnico è di altissimo livello, musica, suoni e colori sono trascinanti, ma ciò che davvero coinvolge è la magia della storia, anche quando non si sa bene cosa stia succedendo ecco che Enn e Zan tornano a essere semplicemente due ragazzi innamorati.
Sicuramente siamo di fronte a un film che è molto lontano da essere perfetto, che sembra essere stato fatto più per se stessi che per il pubblico, eppure l'impressione è che potrebbe diventare un cult underground, un po' Rocky Horror (che spesso ricorda nella follia straniante di una festa popolata di alieni), un po' Across the Universe, un po' Guida Galattica per Autostoppisti, ma senza somigliare davvero a nulla se non a se stesso.
C'è tanto Gaiman ma c'è anche tanto Mitchell, e se si è disposti a lasciar perdere qualsiasi logica, si esce dalla sala divertiti tanto quanto si sono divertiti loro a girarlo.



sabato 10 giugno 2017

La Mummia - la recensione

Film d'esordio del Dark Universe, l'universo condiviso dei mostri della Universal, ed ennesimo rifacimento di un classico degli anni '30, La Mummia si portava dietro anche una certa aspettativa dovuta al seguito che si porta dietro la pellicola datata 1999, diventata un piccolo cult. Il regista Alex Kurtzman decide di discostarsi abbondantemente dall'iconografia classica, soprattutto rendendo la mummia del titolo una donna, la principessa Ahmanet (la sensuale Sofia Boutella).

Per il resto la storia è piuttosto classica: nell'antico Egitto, la principessa Ahmanet, che ha fatto un patto col malvagio dio Set, viene sepolta viva. Ai giorni nostri il soldato Nick Morton (Tom Cruise) e l'archeologa Jenny Halsey (Annabelle Wallis) ne trovano la tomba facendo risorgere la mummia. Nel frattempo una strana organizzazione segreta, comandata dal Dottor Jekyll (Russell Crowe) è intenzionata a ritrovare un misterioso pugnale in qualche modo collegato alla maledizione di Ahmanet.

Quando ci si approccia a un film de genere è fondamentale non aspettarsi spiegazioni logiche e coerenti, o una trama particolarmente articolata, e infatti fin da subito appare chiaro che il prendersi troppo sul serio non fa parte del gioco. Questo è positivo, perché sicuramente una eccessiva pesantezza nelle tematiche e nei personaggi avrebbe appesantito il tutto, rischiando facilmente di sfociare nell'incoerente, per non dire nel ridicolo.  
Sono evidenti richiami ai vecchi film di avventura degli anni '80, in particolare ai vari Indiana Jones, soprattutto nella prima parte ambientata in Medio Oriente, che è anche decisamente la parte migliore. 
Una volta ritornati in Occidente e nella grigia Londra, il tutto perde un po' mordente, introducendo anche quello che sicuramente farà da collante con il resto del Dark Universe, il personaggio di Russell Crowe non troppo approfondito, sottosfruttato, forse avrebbe meritato qualcosa di più (ma chissà se avremo l'occasione di vederlo di nuovo nei prossimi film).

Chi invece è parso divertirsi un mondo è Tom Cruise, davvero in parte, naturale in un tipo di ruolo che non è nuovo per lui e che evidentemente l'attore fa sempre volentieri: il suo Nick è divertente, spigliato, il vero mattatore, tra l'altro è sembrato avere anche una buona chimica con la Wallis e, soprattutto, nelle riuscitissime scene insieme a Jake Johnson, esilarante spalla comica.
La durata non eccessiva permette allo spettatore di divertirsi senza risentire della noia, dato che  la storia procede spedita, le scene d'azione sono dinamiche, i tempi comici ben congeniati e gli effetti speciali ottimi, in particolare Sofia Boutella è splendida e riesce a essere estremamente sensuale anche con un uso abbondante di CGI.

Di sicuro non si sta parlando del film dell'anno, non si avvicina al livello di blockbuster di alta levatura, ma riesce a intrattenere e divertire senza pretese di sorta. Un buon inizio per questo Dark Universe, sperando di migliorare ulteriormente.

martedì 6 giugno 2017

Nastri d'Argento 2017 - le nomination

Sarà sfida a tre ai prossimi Nastri d'Argento, i premi del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani.

Tre sono infatti i film ad aver ricevuto il maggior numero di nomination, si tratta di Fortunata di Sergio Castellitto, La Tenerezza di Gianni Amelio, e Indivisibili di Edoardo De Angelis, che hanno ricevuto 7 candidature ciascuno.

Seguono, con 6 nomination, Fai Bei Sogni di Marco Bellocchio e Fiore di Claudio Giovannesi.

Le nomination sono state svelate oggi a Roma, in occasione della consegna dei premi speciali (questa sera al MAXXI): a 7 Minuti di Michele Placido, per "l’attenzione al cinema civile, in particolare sul tema del lavoro"; a Sole cuore amore di Daniele Vicari; e ai protagonisti di Monte di Amir Naderi, Claudia Potenza e Andrea Sartoretti, "per l’impegno in una prova di interpretazione anche fisicamente durissima".

Il Nastro dell'Anno è già stato annunciato tempo fa, sarà consegnato a Paolo Sorrentino per la serie The Young Pope, i Nastri "eccellenti" invece andranno a Roberto Faenza e Giuliano Montaldo. Annunciato da tempo anche il Nastro d'Argento europeo 2017 a Monica Bellucci, per il film di Emir Kusturica On the Milky Road.

Molti attori sono stati nominati per due film, ma da notare anche che le cinquine non sono in realtà cinquine, in alcuni casi gli attori e le attrici dello stesso film sono stati "raggruppati" in un'unica nomination, ad esempio, Alessandro Gassmann e Marco Giallini sono entrambi candidati per il film Beata Ignoranza, così come Giovanna Mezzogiorno e Micaela Ramazzotti per La Tenerezza. Due nomi, una sola nomination.

La premiazione il 1 luglio, come sempre al Teatro Antico di Taormina. Ecco tutte le nomination.

Miglior Film
La tenerezza
Tutto quello che vuoi
Fortunata
Fiore
Indivisibili

Miglior Regista
Gianni Amelio (La tenerezza)
Sergio Castellitto (Fortunata)
Marco Bellocchio (Fai bei sogni)
Edoardo De Angelis (Indivisibili)
Antonio Piazza e Fabio Grassadonia (Sicilian Ghost Story)

Miglior Regista Esordiente
Vincenzo Alfieri (I peggiori)
Marco Danieli (La ragazza del mondo)
Roberto De Paolis (Cuori Puri)
Andrea De Sica (I figli della notte)
Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (Mine)

Miglior Commedia
L’ora legale
Lasciati andare
Moglie e marito
Omicidio all’italiana
Orecchie

Miglior Attore Protagonista
Renato Carpentieri (La tenerezza)
Alessandro Gassmann, Marco Giallini (Beata Ignoranza)
Luca Marinelli (Il padre d'Italia)
Michele Riondino (La ragazza del mondo)
Toni Servillo (Lasciati andare)

Miglior Attore non Protagonista
Claudio Amendola, Luca Argentero (Il permesso)
Alessandro Borghi (Fortunata, Il più grande sogno)
Ennio Fantastichini (Caffè, La stoffa dei sogni
Valerio Mastandrea (Fiore)
Edoardo Pesce (Cuori Puri, Fortunata)

Miglior Attrice Protagonista
Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti (La tenerezza)
Isabella Ragonese (Sole Cuore Amore, Il padre d'Italia)
Sara Serraiocco (Non è un paese per giovani, La ragazza del mondo)
Greta Scarano (La verità sta in cielo, Smetto quando voglio - Masterclass)
Jasmine Trinca (Fortunata)

Miglior Attrice non Protagonista
Barbora Bobulova (Cuori Puri, Lasciami per sempre)
Margherita Buy (Come diventare grandi nonostante i genitori, Questi giorni)
Sabrina Ferilli (Omicidio all’italiana)
Anna Ferruzzo (Il padre d’Italia)
Carla Signoris (Lasciati andare)

Miglior Soggetto
Michele Astori, Pierfrancesco Diliberto (In guerra per amore)
Massimiliano Bruno, Herbert Simone, Gianni Corsi (Beata ignoranza)
Nicola Guaglianone (Indivisibili)
Edoardo Leo (Che vuoi che sia)
Fabio Mollo, Josella Porto (Il padre d’Italia)

Migliore sceneggiatura
Francesco Bruni (Tutto quello che vuoi)
Ugo Chiti, Gianfranco Cabiddu, Salvatore De Mola con Francesco Marino (La stoffa dei sogni)
Claudio Giovannesi, Filippo Gravino, Antonella Lattanzi (Fiore)
Alex Infascelli, Francesca Manieri (Piccoli crimini coniugali)
Margaret Mazzantini (Fortunata)

Miglior Produttore
Claudio Bonivento (Il permesso)
Beppe Caschetto (Fai bei sogni, Tutto quello che vuoi)
Beppe Caschetto, Rita Rognoni (Fiore)
Attilio De Razza (L’ora legale)
Attilio De Razza, Pierpaolo Verga (Indivisibili)
Gaetano Di Vaio, Gianluca Curti (Falchi)
Nicola Giuliano,Francesca Cima, Carlotta Calori, Viola Prestieri (Fortunata)
Nicola Giuliano,Francesca Cima, Carlotta Calori, Massimo Cristaldi (Sicilian Ghost Story)

Miglior Fotografia
Luca Bigazzi (La tenerezza, Sicilian Ghost Story)
Arnaldo Catinari (Piccoli crimini coniugali, Tutto quello che vuoi)
Duccio Cimatti (La guerra dei cafoni)
Daniele Ciprì (Fai bei sogni, Fiore)
Gian Filippo Corticelli (Rosso Istanbul)

Migliore Scenografia
Giancarlo Basili (La tenerezza)
Dimitri Capuani (I figli della notte)
Marco Dentici (Fai bei sogni, Sicilian Ghost Story)
Marina PInsuti Ansolini (Piccoli crimini coniugali)
Aelssandro Vannucci (Smetto quando voglio - Masterclass)

Migliori Costumi
Daria Calvelli (Fai bei sogni)
Massimo Cantini Parrini (Indivisibili)
Beatrice Giannini, Elisabetta Antico (La stoffa dei sogni)
Patrizia Mazzon (Smetto quando voglio: Masterclass)
Cristiana Ricceri (In guerra per amore)

Miglior Montaggio
Francesca Calvelli (Fai bei sogni)
Jacopo Quadri (La guerra dei cafoni)
Matteo Santi, Fabio Guaglione, Filippo Mauro Boni (Mine)
Roberto Siciliano (Il permesso)
Giuseppe Trepiccione (Fiore)

Miglior Sonoro in Presa Diretta
Stefano Campus (Il permesso)
Gianluca Costamagna (Tutto quello che vuoi)
Alessandro Rolla (Fortunata)
Remo Ugolinelli, Alessandro Palmierini (Sole Cuore Amore)
Alessandro Zanon (La tenerezza)

Miglior Colonna Sonora
Enzo Avitabile (Indivisibili)
Nino D’Angelo (Falchi)
Stefano Di Battista (Solo Cuore Amore)
Giuliano Sangiorgi (Non è un paese per giovani)
Giuliano Taviani, Carmelo Travia (Rosso Istanbul)

Miglior Canzone Originale
Abbi pietà di noi (Indivisibili)
Donkey Flyin’ In The Sky (In guerra per amore)
Ho perso il mio amore (La verità, vi spiego, sull’amore)
L'estate addosso (L’estate addosso)
Quando le canzoni finiranno (La cena di Natale)

CINQUINA SPECIALE 2017 per un Nastro dedicato al cinema sui giovani
L’estate addosso (Gabriele Muccino)
Non è un paese per giovani (Giovanni Veronesi)
Piuma (Rohan Johnson)
the startup (Alessandro D'Alaltri)
SLAM: Tutto per una ragazza (Andrea Molaioli)

domenica 4 giugno 2017

Wonder Woman - La Recensione






Il Dc Cinematic Universe sta muovendo i suoi primi passi vero una sua omogeneità, e questo va riconosciuto, con il primo film non incentrato sui due eroi più iconici ed importanti della casa editoriale, Wonder Woman si configura anche come un esperimento, visto che il futuro passa anche per Flash, Cyborg e Aquaman. L'esperimento è riuscito? Parzialmente.

Nata su un'isola di sole donne nascosta al genere umano, cresciuta come una guerriera sotto gli insegnamenti ed i colpi della zia, giunta alla maturità ed ancora in fase di scoperta del suo vero potenziale, Diana, un'amazzone da sempre ribelle, decide di abbandonare casa quando se ne presenta l'occasione, spinta da un senso del dovere, dalla grande curiosità e dal destino. Qui viene il bello, catapultata nella Grande Guerra, sarà una risorsa importantissima per cercare di porre fine al conflitto.

Dopo questa breve pausa per contestualizzare il film, è il momento di arrivare "al succo".
Sono giorni che si rincorrono pareri discordanti, che oscillano tra "boiata" e "miglior film DC", fino al capolavoro, probabilmente la verità come sempre, sta nel mezzo.

Per il ruolo di Diana è stata scelta la bellissima Gal Gadot che ha il pregio di riuscire a guidarci, per tutto il film senza picchi, aiutata anche da Patty Jenkins che si limita al compitino.
La parte tecnica arriva alla sufficienza senza difficoltà e, probabilmente, la cosa più "interessante" è la schitarrata come tema musicale, che svetta sul piattume generale.

E' un film che per tutta la sua durata sa un po' di occasione sprecata, commettendo gli stessi errori di un suo "predecessore", Captain America: Il Primo Vendicatore, cioè un altro origin movie war-based, finendo inevitabilmente per essere giudicato anche per la sua coerenza nell'essere un film di guerra. Nello specifico Wonder Woman non riesce a trovare una sua identità, risultando "pupazzosa" nelle scene di guerra, con brutti fondali, visibilmente artificiali e scene non propriamente credibili, anche al netto della sospensione dell'incredulità che viene posta in azione dallo spettatore.

Gli errori sono più che altro degli scivoloni, come il fronte inespugnabile per un anno intero, composto da una manciata di soldati ed una mitragliatrice, oppure i ruoli assegnati ai personaggi secondari, per comporre quello che nelle intenzioni è un bel team poliedrico e multifunzionale, con un cecchino britannico, un truffatore nordafricano ed un contrabbandiere nativo americano. Il primo non spara, il secondo non truffa ed il terzo non contrabbanda.
Nota positiva è il capitano Steve Trevor, interpretato da Chris Pine, che ha una sua coerenza per tutta a durata del film

Per quanto il film non sia sgradevole, lo si vive sempre con la consapevolezza che, con qualche sforzo in più, il risultato poteva essere indubbiamente migliore. Il cammino del DC Universe, per adesso, continua a riscontrare grandi problemi di identità, con l'ombra ingombrante del Marvel Cinematica Universe, che crea problemi non indifferenti nelle tempistiche. Questa fretta di voler raggiungere i rivali, con l'arrivo della Justice League dopo aver realmente introdotto appena tre degli eroi che la compongono, si sta traducendo in risultati quasi sciatti, visto l'alto potenziale del materiale a disposizione.

Tutto sommato Wonder Woman non è un brutto film, è il migliore tra quelli finora proposti dalla DC, ma la strada verso il successo è ancora lunga.