mercoledì 28 giugno 2017

American Gods (Stagione 1) - la recensione

La serie tratta dal romanzo culto American Gods è stata certamente una delle serie più attese dell'anno, una delle più attese di sempre fin da quando, nel 2011, ne annunciarono la produzione per il canale statunitense Starz (lo stesso di Spartacus, ma anche di un altro adattamento dal cartaceo, ovvero Outlander). I nomi coinvolti, poi, non hanno fatto che acuire la curiosità e aumentare l'hype, soprattutto se si considera che Bryan Fuller, showrunner designato (e lo stesso autore Neil Gaiman come produttore esecutivo) può vantare non solo una carriera decisamente interessante, ma anche un'appassionata fanbase.


Nel corso degli otto episodi che compongono questa prima stagione, assistiamo, possiamo dire, a quello che è un lungo incipit, una sorta di assaggio di quanto vedremo in futuro, uno spiraglio su quello che una storia e un romanzo come American Gods può riservare.
La trama è più o meno nota: il riservato Shadow Moon viene rilasciato di prigione qualche giorno prima del previsto perché sua moglie Laura è morta in un incidente stradale; durante il viaggio in aereo per tornare a casa e assistere al funerale, si imbatte nel misterioso Mr Wedsnday che lo assume come guardia del corpo e autista, portandolo in giro per la periferia degli Stati Uniti per assoldare gli Antichi Dei, unendoli in una battaglia contro le moderne divinità del denaro e della tecnologia.

Con una premessa apparentemente semplice, quasi lineare, il romanzo di Gaiman si snodava in una lunga storia on the road, dove antiche leggende, miti, mondi nascosti e una certa dose di fantasy si intrecciavano con una delle più interessanti disamine della società americana mai scritte, dove l'occhio esterno di Gaiman, un inglese trapiantato in America, focalizzava in maniera lucida e diretta le più grandi virtù e i più sudici vizi di un paese costruito sull'immigrazione e la coesistenza di diverse culture.
Nonostante sia stato pubblicato nel 2001, American Gods riesce a essere ancora straordinariamente attuale e questo Bryan Fuller lo sa perfettamente, sfruttandone appieno il potenziale politico nell'America di Trump dei giorni nostri. 

I tempi dilatati, la “storia nella storia”, le vicende apparentemente slegate fra loro, presenti nel romanzo, sembrano allo stesso tempo uscire dalla mente di un autore come Fuller che fa del visionario, della regia attenta al dettaglio, dello slow motion e della fotografia piena di contrasti il suo marchio di fabbrica. Saltano subito all'occhio richiami visivi ad Hannibal, il suo ultimo lavoro, ma anche ai precedenti Pushing Daisies, con il racconto nel racconto, e all'umorismo macabro che caratterizzava Dead Like Me. Ed è allo stesso tempo molto diverso da tutti i suoi precedenti lavori, perché molte scelte visive sono chiaramente ispirate ai fumetti di Gaiman e in particolare ad alcuni fra gli albi più colorati di Sandman, tanto che non risulterebbe strano se nel pantheon di antichi e nuovi Dei facessero la loro comparsa anche gli Eterni, protagonisti del fumetto in questione.

Anche la scelta del cast era importantissima per poter riproporre sullo schermo un romanzo che ha nel suo essere principalmente visione più che semplice scrittura. 
Ian McShane giganteggia nei panni di Mr Wedsnday, perfetto nel restituire allo spettatore la sensazione che, dietro le sue parole, ci sia sempre dell'altro, che nulla dei suoi gesti è casuale, che nonostante non ci si possa fidare di lui qualcosa ci attira irrimediabilmente. Shadow, il Ricky Whittle già visto nella serie The100, risulta irrimediabilmente penalizzato nel confronto continuo con McShane, ma riesce comunque a trasportare su schermo la confusione di un personaggio non facile, in quanto estremamente riservato e silenzioso, di cui è semplice comunicare pensieri e sensazioni sulla carta, ma molto difficile farlo on video. 
Simbolo, tuttavia, della riuscita di questa trasposizione è la Media di Gillian Anderson, trasformista capace di passare con disinvoltura da Lucille Ball a David Bowie, da Marilyn Monroe a Judy Garland, cambiando non solo aspetto, ma modo di parlare, di muoversi, cambiando anche il mondo che la circonda.


Molto del fascino di questa prima stagione è principalmente visivo, infatti, perché il viaggio non è che appena iniziato e tutto è ancora davanti a Shadow e allo spettatore. Molti hanno storto (e storceranno) il naso di fronte alla lentezza della trama, alle frequenti digressioni, ma poco si può fare, American Gods non era un romanzo di intreccio, era un romanzo di mente, una storia fatta di altre storie, di personaggi che raccontano, di arrivi in America, di leggende e mitologia, in questo la serie è estremamente fedele alla controparte cartacea, tanto che i lettori si sono ritrovati più volte a guardare scene e dialoghi identici a quelli del romanzo.

Non è una serie per tutti, bisogna venire a patti con una trama dilatata, con i momenti in cui ci si sente confusi, in cui è lo spettatore, così come fu il lettore, a dover mettere insieme i pezzi.
Il finale di stagione rivela, ma non spiega, lasciando la sensazione di non aver ancora visto niente, eppure di aver visto qualcosa di magnifico. 
E ci invita ad avere fede.


Mr. Wednesday: Do you believe?
Shadow: I believe.
Mr. Wednesday: What do you believe, Shadow?
Shadow: Everything.

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