sabato 29 ottobre 2022

The Good Nurse - la recensione

È uscito direttamente su Netflix il film The Good Nurse, con Jessica Chastain e Eddie Redmayne protagonisti, che racconta la storia di uno dei serial killer più prolifici degli Stati Uniti.

New Jersey, 2003, al Somerset Hospital lavora l'infermiera Amy (Chastain), sola con due figlie e una malattia cardiaca che sta peggiorando. Ad aiutarla nei pesanti turni di notte in terapia intensiva, c'è il suo nuovo collega Charlie Cullen (Redmayne), arrivato all'ospedale dopo averne girati ben nove. Charlie fin da subito si mostra calmo e gentile, soprattutto verso Amy, con cui stringe una sincera amicizia. In terapia intensiva però alcuni pazienti muoiono in modo sospetto. La polizia indaga, la direzione dell'ospedale cerca di coprire i fatti, mentre Amy inizia a sospettare di Charlie e sarà proprio lei ad indirizzare la polizia verso una sconvolgente verità.

Una storia decisamente inquietante, in particolare sotto due punti di vista. Charlie Cullen è un personaggio che mette i brividi, un "angelo della morte" che ha provocato il decesso di almeno una trentina di pazienti accertati, ma che si sospetta possano essere addirittura 400, ed è proprio la sua calma, la pacatezza, la sua totale assenza di empatia a fare paura, il suo essere assolutamente normale e crudele. Se da una parte Charlie provoca inquietudine come persona, dall'altra si prova rabbia a pensare quanti sapevano e non hanno parlato, quanti ospedali hanno preferito nascondere tutto sotto al tappeto invece di fermare un assassino. Tutto il senso di una vicenda che impressiona e inquieta, è rinchiuso nella frase che Charlie dice ad Amy quando lei gli chiede il perché delle sue azioni: "Non mi hanno fermato". Il sistema non lo ha fermato e lui ha ucciso semplicemente perché poteva farlo.

L'inquietudine che pervade la storia dall'inizio alla fine è ben rappresentata dalla regia poco mobile di Tobias Lindholm che offre inquadrature molto "tagliate", e da una fotografia fredda, grigia, buia, che suggerisce bene un'atmosfera claustrofobica, carica di sofferenza e allo stesso tempo asettica da ospedale. Visivamente il film fa il suo, è concreto, senza fronzoli, questo nonostante un ritmo non proprio incalzante. Il film ha un andamento che manca di un vero picco, crea tensione senza mai farla sfociare, ma più che un difetto vero e proprio, si tratta di una precisa scelta narrativa, la voglia di non diventare un puro "crime", o un thriller, di non cedere all'enfasi, e lasciare ai due protagonisti lo spazio per muoversi e creare la storia.

Il vero punto di forza del film infatti sono proprio le interpretazioni di Jessica Chastain e Eddie Redmayne, davvero ottime, tengono perfettamente sulle spalle le due ore di durata. Entrambi mai sopra le righe, sempre al servizio della parte, il loro è un duetto e un duello, Jessica Chastain riesce a trasmettere tutta la sua umanità, il conflitto emotivo che la attraversa e si trasforma durante la storia, mentre dall'altra parte Eddie Redmayne riesce ad essere gentile e freddo, affabile ma dallo sguardo vuoto, inquietante nella sua ambiguità e nei suoi piccoli momenti di rabbia, trattenuti e limitati a pochi brevi secondi.

The Good Nurse è un film ben fatto, ben girato, e soprattutto ottimamente interpretato.

lunedì 3 ottobre 2022

Blonde - la recensione

È arrivato su Netflix uno dei film più attesi e discussi delle ultime settimane, Blonde, di Andrew Dominik, biopic tra realtà e finzione che racconta la storia e la figura di una delle più celebri icone del '900, Marilyn Monroe. Un film che sta letteralmente spaccando critica e pubblico.

Blonde è difficile da interpretare, si propone di raccontare la vita di una persona realmente esistita ma, sostanzialmente, attraverso fatti che non sono mai successi. Definirlo biopic non è corretto, proprio come il romanzo da cui è tratto non può essere definito "biografia", nemmeno romanzata. Della storia di Marilyn ci sono solo alcuni spunti, quello che poi viene raccontato, che vediamo nel film, per la maggior parte è stato inventato.

Il film inizia nel 1933, con Norma Jeane bambina con una madre con seri problemi mentali, poi vediamo gli inizi della carriera di Marilyn, la violenza sessuale subita da un produttore, una relazione a tre, audizioni andate male ma ruoli conquistati grazie al suo aspetto fisico, gli aborti, i matrimoni falliti, la ricerca costante del padre mai conosciuto, la distanza tra Norma e Marilyn, le continue delusioni, e la morte, che nel film viene mostrata come suicidio.

L'intento originale è interessante, analizzare un'attrice, una diva, che col tempo è diventata quasi un simbolo, un essere irreale, in contrasto con la persona fragile e segnata dai traumi che era in privato, in un ambiente crudele com'era quello della Vecchia Hollywood, lo sviluppo però è debole e confusionario.
Quella nel film è la vita di Marilyn solo a grandi linee, non ha mai avuto una relazione a tre con due figli d'arte falliti, gli aborti non sono avvenuti come si vede e nei periodi in cui sono stati piazzati, mancano enormi parti essenziali della sua vita, personaggi - nel bene e nel male - importanti, la relazione accertata con i Kennedy è stata con Robert (del tutto assente) e non con John, le presunte lettere del padre sono una finzione, la scena della morte è completamente diversa da quanto avvenuto realmente, tante cose inventate che, messe insieme, creano un ritratto fittizio di Marilyn, in sostanza, quello che vediamo è falso, volutamente falso. La vita di Marilyn è stata tragica nel privato e luminosa sullo schermo, breve negli anni, conclusa prematuramente con una morte mai chiarita, ma il suo mito è parte immortale della Storia del Cinema, quindi perché non raccontare la vera storia invece di inventare situazioni parallele e, in alcuni casi, anche poco rispettose della memoria dell'attrice?

Il vero punto debole del film infatti è proprio la storia che pretende di voler raccontare. Al centro di tutto c'è un dualismo in cui viene quasi demonizzato il personaggio Marilyn Monroe e i suoi film, mentre la povera Norma Jeane cerca di sopravvivere, alla disperata ricerca di una figura paterna. Un dualismo raccontato in modo troppo radicale, senza sfumature, che finisce per schiacciare sia Marilyn che Norma, che ne escono come due figure piatte, per niente approfondite. Il regista Andrew Dominik, che ha firmato anche la sceneggiatura, non sembra molto interessato a dare spessore a Marilyn, di cui sembra non avere particolare stima, né come attrice, né come donna. La sua Marilyn/Norma è inconsapevole, incapace di imporsi, vittima di tutti ma soprattutto sempre disposta ad essere vittima, senza reagire mai. Il punto di vista del regista vorrebbe essere schietto e spietato, quello di chi non guarda in faccia a nessuno, ma non riesce mai a staccarsi dal suo punto di vista "maschile" e l'unica vittima del suo sguardo alla fine è proprio Marilyn. A risultare piatti, in realtà, sono anche i personaggi maschili, di cui si preferisce non fare nomi e cognomi anche se è evidente chi sono: Joe DiMaggio è lo stereotipo dell'italoamericano in canottiera con famiglia tra fornelli e sughi; Arthur Miller, altro stereotipo, intellettuale quindi, ovviamente, pacato, sensibile e un po' distratto; John F. Kennedy, un cafone arrapato; il produttore che la violenta, chiamato "Mr. Z", è Darryl F. Zanuck e la scena dello stupro sembra uscita dalle testimonianze contro Harvey Weinstein. Andrew Dominik quindi non era molto interessato ad approfondire i personaggi, la sua intenzione era quella di raccontare la brutale Hollywood, come certi uomini di potere trattano le donne o si sentano in difficoltà con loro, ma soprattutto voleva distruggere l'"idea del mito" e mostrare come il mito può distruggere una persona, e Marilyn Monroe gli è servita solo come mezzo per arrivare al suo scopo, il problema è che Marilyn è una persona realmente esistita e in alcuni casi avrebbe meritato un po' più di rispetto, o almeno di non finire associata a scene di sesso inutilmente esplicite e grottesche.
Nota a parte, il modo in cui il regista tratta gli aborti dell'attrice, l'intento era quello di mostrare un senso di colpa che perseguita la protagonista negli anni, il suo difficile rapporto con la maternità, tutto attraverso in immaginario dialogo interiore della protagonista, ma il risultato è abbastanza imbarazzante e troppo simile a uno spot anti-abortista, onestamente fastidioso, soprattutto di questi tempi.

Chi invece ha rispettato davvero Marilyn è Ana de Armas, la nota più positiva di Blonde. L'attrice ci ha messo tutto l'impegno possibile per diventare Marilyn, si è calata anima e corpo, ed è ammirevole, quasi commovente, il modo in cui cerca di renderle omaggio. L'attrice riesce ad essere fragile, volubile, tenera, a dare corpo e sostanza a un personaggio piatto, a portare un po' di emozione vera, sincera, in un film dalle emozioni false. È davvero l'anima del film e avrebbe meritato una sceneggiatura, all'altezza della sua performance.

Da un punto di vista tecnico, Blonde è sicuramente ben fatto. Visivamente affascinante, il film cambia continuamente formato, passa dal bianco e nero ai colori da una scena all'altra, ha una fotografia un po' patinata ma molto bella, ed è evidente il grande lavoro di studio fatto sulle foto e i look più famosi di Marilyn. La regia di Dominik è ottima per quasi tutto il film... quasi, perché in più di un'occasione inserisce inquadrature piazzate solo per pura trasgressione personale/ego (la ripresa da dentro i genitali durante l'aborto), o imbarazzanti (il feto che parla, l'apparizione del padre tra le nuvole), che in un paio di situazioni vanno a rovinare delle scene visivamente molto coinvolgenti. Virtuosismi belli da vedere ma che non alleggeriscono le quasi 3 ore di durata e soprattutto non riescono a far dimenticare una storia debole.

Se ci si approccia a Blonde pensando di vedere un film su Marilyn Monroe, si resta delusi, anche un po' infastiditi e annoiati. E pensare che le nuove generazioni possano conoscere Marilyn con questo film, fa un po' rabbrividire. Blonde sicuramente merita una visione, ruba l'occhio, affascina con le immagini, e raccoglierà sicuramente nomination nella stagione dei premi (con Brad Pitt produttore è quasi scontato), ma sotto l'aspetto intrigante c'è una base debole impossibile da ignorare. Non è il film che Marilyn Monroe avrebbe meritato. Alla fine, Blonde usa Marilyn, non la racconta, la tratta come è stata trattata a suo tempo, senza molto rispetto per le sue capacità e per la sua complessità di donna e attrice.