Napoli, 1984. Fabietto Schisa è un ragazzino che vive la sua adolescenza tranquillamente con i suoi genitori, Saverio e Maria, e il fratelli, Marchino e Daniela. Ma sulla città e sulla famiglia aleggia un nome, sussurrato, pieno di speranza, senza davvero crederci, un sogno che potrebbe diventare realtà: Maradona che approda al Napoli.
Inizia così l'ultimo film di Paolo Sorrentino, quello che racconta sostanzialmente la sua storia e che, a più di sette anni da La Grande Bellezza, potrebbe riportarlo agli Oscar, proprio su quel palco dove, nel suo discorso di ringraziamento, citò proprio Maradona.
E si respira l'atmosfera di quegli anni nel film di Sorrentino, si respira l'attesa, si percepisce ciò che Maradona ha significato (e ancora significa) per Napoli e per i napoletani, molto più che un giocatore di calcio, un simbolo di rinascita per la città, un eroe popolare, quasi una divinità pagana che veglia sui suoi discepoli.
La famiglia di Fabietto, pur con i suoi personaggi bislacchi e così tipicamente sorrentiniani, è una famiglia normale, semplice, con i suoi alti e bassi, piena di amore, dove la tragedia arriva come un fulmine a ciel sereno, scuotendo la vita di Fabietto e dove l'intervento di Maradona, o di Dio, ma forse di entrambi, ha un significato sia simbolico che letterale.
Lasciando un po' da parte i vezzi più estetisti del suo cinema, Sorrentino mette insieme immagini liriche e poetiche di una vita semplice, un film intimo che parla di famiglia sopra ogni altra cosa, quella famiglia che è stata strappata via troppo presto al protagonista, vero e proprio alter ego del regista stesso. C'è tanto di autobiografico, non solo nella storia, ma anche nei temi: troviamo quindi l'amore per i genitori e i fratelli, la venerazione per Maradona, la magia del Cinema, un certo nichilismo nei confronti della vita che però non sfocia mai nel cinismo vuoto ma riesce sempre a rimanere ammantato di poesia.
Ci sono anche i feticci di Sorrentino, da un certo tipo di ripresa e di dialogo a, soprattutto, l'attore Toni Servillo, sempre più camaleontico e, come al solito, perfetto nel dare vita a un padre con tante luci e qualche ombra, un uomo comune e straordinario insieme. Ottimo anche il giovane Filippo Scotti, per la prima volta nel ruolo da protagonista, un ruolo tutt'altro che facile anche per il semplice fatto di dover essere a tutti gli effetti la trasposizione dello stesso regista nella pellicola.
Sicuramente È stata la mano di Dio non ha lo stesso potere dirompente de La Grande Bellezza, ma non per questo è da meno al suo "predecessore" (simbolicamente, in ambito premi), forse non il capolavoro di Sorrentino ma di sicuro il suo film più intimo.
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