lunedì 11 dicembre 2023
giovedì 7 dicembre 2023
'Killers Of The Flower' Moon miglior film dell'anno per la National Board of Review
venerdì 1 dicembre 2023
New York Film Critics Circle - il miglior film dell'anno è Killers of the Flower Moon
sabato 25 novembre 2023
C'è Ancora Domani - la recensione
martedì 21 novembre 2023
The Killer - la recensione
giovedì 2 novembre 2023
Killers of the Flower Moon - la recensione
Torna Martin Scorsese e torna a fare un film dalla lunghezza importante (tre ore e mezzo circa) con una piattaforma streaming (in questo caso Apple Tv), con i suoi attori feticcio Robert De Niro e Leonardo DiCaprio. e che in un certo senso è un film intrinsecamente scorsesiano, perché è impossibile non riconoscere la mano dietro la macchina da presa e la tematica del male non come qualcosa di oscuro ed eccezionale ma di quotidiano, banale.
Allo stesso tempo è anche un film abbastanza diverso dal solito e si inserisce più nel filone delle sue ultime opere (Silence e The Irishman soprattutto) che in quello dei suoi lavori più classici e conosciuti. Ed è un film che non può fare altro che dividere gli spettatori, fra chi lo amerà e chi lo odierà, fra chi lo ha trovato inutilmente lungo a chi invece non avrebbe tagliato neanche un fotogramma.
La tribù nativa americana degli Osage, dopo essere stata scacciata dalle sue terre, viene sistemata dal governo in Oklahoma e viene loro assegnato un pezzo di terra apparentemente arido e inospitale ma che nasconde invece il germe della ricchezza: il petrolio. Gli Osage diventano ricchissimi vendendo le concessioni a "cerca oro" e uomini d'affari, ma in un'America profondamente razzista, il fatto che siano gli indiani a detenere questo potere, è inammissibile, tanto che a ciascuno di loro venne assegnato un tutore. È in questa cornice che si sono consumati una serie di omicidi, e decessi apparentemente naturali, di membri degli Osage, e alla fine si stima che i morti siano stati addirittura un centinaio nell'arco di molti anni.
Scorsese prende questa triste storia americana, raccontata nel libro Gli assassini della terra rossa, e decide di raccontarla da un punto di vista inedito, quello degli stessi Osage, e in particolare di Mollie Burkhart (Lily Gladstone), a cui morirono le tre sorelle e la madre in circostanze più che sospette, e che rischiò essa stessa la vita, ma si batté anche con la sua comunità affinché il governo degli Stati Uniti facesse qualcosa (fu questo evento, infatti, a sancire la vera e propria nascita dell'FBI). Ma Mollie è anche la moglie di Ernest Buckhart (Leonardo Di Caprio), che insieme a suo zio William Hale (Robert De Niro), erano le menti dietro l'eliminazione degli Osage con lo scopo di ottenere la loro ricchezza.
In 206 minuti, Scorsese inserisce molte anime nel suo film: c'è la componente più puramente true crime, con la ricostruzione di una vera e propria strage effettuata ai danni degli Osage, con il carico di razzismo e discriminazione che da sempre accompagna i nativi americani; c'è il dramma familiare; c'è la componente giudiziaria e investigativa, con la nascita dell'FBI e l'arrivo degli agenti infiltrati guidati da Tom White (Jesse Plemmons) che pur riuscendo a smascherare la rete di omicidi e omertà presente nella città, non riescono a fare veramente giustizia proprio a causa del razzismo sistemico che sembra non considerare la morte degli Osage degna di nota.
Oltre alla struttura narrativa e alla regia che regala splendide immagini e scorci da western, a brillare davvero in Killers of the Flower Moon è il cast, in particolare Lily Gladstone ruba la scena con la sua interpretazione brillante e sofferta e il carisma affascinante che riesce a imprimere nel suo personaggio, persino nei momenti di debolezza e malattia.
Alla fine delle quasi tre ore e mezzo di film, le sensazioni possono essere soltanto due: o si esce sfiniti, con l'idea che il tutto sarebbe potuto durare molto meno e senza emozione, oppure con gli occhi lucidi e il cuore pesante, con la convinzione che ogni inquadratura e ogni parola siano state messe al posto giusto e che nulla del film avrebbe potuto essere tagliato, anzi, che si sarebbe potuti tranquillamente rimanere rapiti dalla magia del film per un'ora ancora.
Chi vi scrive appartiene a questa seconda categoria.
mercoledì 1 novembre 2023
Cosa succede in casa Marvel? Dal problema Kang all'idea del ritorno degli Avengers originali.
giovedì 28 settembre 2023
Assassinio a Venezia - la recensione
Questo cambio di location è assolutamente vincente perché la città è davvero perfetta per ambientare un horror-mistery, con i suoi canali, le luci che si specchiano sull'acqua scura, i mantelli e le maschere. A differenza del passato, inoltre, Branagh punta su un cast molto meno altisonante, il nome di spicco è Michelle Yeoh, ma ci sono anche Tina Fey, Jamie Dornan e il nostro Riccardo Scamarcio, tutti molto bravi ma ben lontani dal richiamo mediatico di un Johnny Depp o una Michelle Pfeiffer del primo film.
Ciò che salta inoltre maggiormente all'occhio è come questo sia, a tutti gli effetti, un vero e proprio horror ancora prima che un giallo, che Branagh gira con tutti i canoni classici, dalle inquadrature storte (e distorte), alla fotografia un po' gotica fatta di contrasti fra luce e tenebra, fino ai classici jump scare inseriti al momento giusto. E, sorprendentemente, il tutto funziona benissimo, con la narrazione che procede spedita fra colpi di scena e sedute spiritiche fino al gran finale, che rientra trionfalmente nel classico scenario alla Poirot, in cui il protagonista riunisce tutti i personaggi in un solo luogo per esporre la risoluzione del caso.
Indifferente alla risposta non proprio massiccia del boxoffice, il Poirot di Branagh continua il suo viaggio di decostruzione del proprio mito, e arriva a un picco qualitativo notevole con questo Assassinio a Venezia. Sperando di vederne ancora.
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mercoledì 27 settembre 2023
El Conde - recensione
venerdì 22 settembre 2023
Festa del Cinema di Roma 2023 - il programma
sabato 9 settembre 2023
Venezia80 _ Leone d'oro a 'Poor Things!' di Yorgos Lanthimos. Tutti i vincitori.
domenica 27 agosto 2023
Barbie - la recensione
Quando fu annunciato un film su Barbie nessuno avrebbe davvero potuto immaginare un successo di questo tipo, anche quando la presenza di un'autrice come Greta Gerwig alla regia e di Noah Baumbach alla co-sceneggiatura, avevano rassicurato quantomeno sulla tenuta artistica del progetto.
Invece a un mese dalla sua uscita Barbie è diventato il maggior incasso dell'anno e il maggior successo di un film diretto da una donna nella Storia del Cinema. E, naturalmente, un fenomeno mediatico e virale senza precedenti.
Greta Gerwig riesce a ricreare, con scelte registiche originali, le sensazioni di quando si gioca con una bambola, rendendo il tutto ancora più pop e coinvolgente grazie a tante, tantissime, citazioni cinematografiche (quella iniziale a 2001: Odissea nello Spazio è semplicemente geniale, ma non è l'unica) e con un mix di generi travolgente, andando persino a fare un salto nel musical.
Ma probabilmente il vero segreto del successo di Barbie sta nella sceneggiatura: la coppia Gerwig-Baumbach è riuscita a creare un film semplice e commerciale ma allo stesso tempo stratificato e più impegnato. Se apparentemente si tratta di una commedia pop con un messaggio semplice, quasi gridato e didascalico, in realtà la riflessione femminista che compie il film è ben più profonda e va oltre il semplice "donne buone e uomini cattivi", anzi, trova pieno compimento proprio nella parte maschile del film e nel personaggio di Ken, che in un certo senso è il villain del film, ma anche coprotagonista con un proprio percorso di liberazione parallelo a quello di Barbie. Se da una parte Barbie deve imparare la consapevolezza di se stessa e del mondo esterno, come una novella Pinocchio, dall'altra Ken deve riuscire a emanciparsi dal ruolo impostogli dalla società e dalle sue proprie aspettative per poter essere davvero se stesso serenamente. Se da una parte Margot Robbie sembra nata per interpretare Barbie, dall'altra abbiamo probabilmente la miglior interpretazione della carriera di Ryan Gosling, attore che si dimostra ancora una volta istrionico portatore di una mascolinità delicata e fuori dagli stilemi hollywoodiani classici.
Il tutto in una confezione così colorata, frizzante, leggera e travolgente che è difficile pensare che questo film non diventerà un cult pop di quelli che si ricorderanno negli anni.
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Oppenheimer - la recensione
Con Oppenheimer Nolan sembra mettere da parte ogni esagerazione, i ghirigori fantascientifici e le complicazioni di trama per puntare invece dritto al sodo e fare un ritratta scarno, asciutto, ma allo stesso tempo complesso e intenso si J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy), il fisico americano che ha guidato il "Progetto Manhattan" e che è a tutti gli effetti il padre della bomba atomica. Ne risulta un personaggio stratificato, contraddittorio e complesso nelle sue molteplici sfaccettature, allo stesso tempo fragile e pieno di sé, estremamente chiuso ma dai modi spesso pomposi e autoritari, una personalità istrionica e tormentata che Nolan prende come archetipo dell'uomo e lo fa diventare, quasi letteralmente, il Prometeo della mitologia, che dopo aver consegnato il fuoco agli uomini viene severamente punito dagli dei. Anche Oppenheimer, quindi, si ritrova nella posizione per cui la sua scienza, quella meccanica quantistica che aveva rivoluzionato il mondo della fisica del primo ventennio del Novecento, gli serve a costruire un'arma spaventosa che ben presto sfugge a ogni tentativo di controllo, e con cui lo scienziato si troverà a dover fare i conti, politicamente e soprattutto moralmente, per il resto della sua vita.
Nel film si ritrovano alcuni stilemi tipici del cinema nolaniano, dalla non linearità del racconto alla destrutturazione del tempo e soprattutto il dualismo fra scienza ed etica, fra ragione e sentimento, fra teoria e pratica. Questo fa sì che pur essendo un film chiaramente incentrato, a partire dal titolo, sul suo protagonista, Oppenheimer è anche un film corale, dove moltissimi personaggi ruotano intorno alla figura principale e nessuno, anche quelli che compaiono in una sola scena, mancano di lasciare il segno. Accanto a un Cillian Murphy magnetico, c'è anche, vero contraltare del film e lo capiamo subito dall'uso intelligente del bianco e nero, uno straordinario Robert Downey Jr, che ci ricorda in modo chiaro che lui è molto più del Tony Stark made in Marvel.
Ma il cast è davvero tutto di altissimo livello, Emily Blunt e Florence Pugh, che pur in poche scene riescono a dare grande potenza ai loro personaggi, e molti altri, tra cui Matt Damon.
Come accade spesso nel suo cinema, Nolan utilizza non solo montaggio e fotografia con fini narrativi, ma anche il suono, a partire dalla colonna sonora splendida di Ludwig Göransson (che non fa rimpiangere il grande Hans Zimmer) fino all'uso magistrale del sonoro, e in particolare dell'assenza di suoni, che spesso diventa importante tanto quanto, se non di più, dei dialoghi.
Con tre ore di durata che non si sentono affatto grazie a un ritmo serrato, dialoghi perfetti e l'uso sapiente del montaggio, Oppenheimer è forse il film più maturo, complesso e tecnicamente perfetto di Christopher Nolan. Se sarà anche il suo migliore, lo deciderà il tempo.
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