mercoledì 11 dicembre 2019

Marriage Story - la recensione

Cos'è davvero il matrimonio? Cosa accade fra due persone che a un certo punto si separano? Il divorzio è la fine dell'amore o solo del matrimonio?
Queste sono le domande a cui Noah Baumbach tenta di rispondere nel suo film Marriage Story, passato al Festival di Venezia rimanendo clamorosamente senza premi, ma che potrebbe prepotentemente imporsi nella prossima stagione dei premi (intanto ha già collezionato ben 6 nomination ai Golden Globes).


Un bel colpo per Netflix, che ha prodotto il film e lo ha distribuito nelle sale per pochi giorni, facendo riaprire uno storico cinema newyorkese, mettendolo poi a disposizione di tutti sulla piattaforma streaming dallo scorso 6 dicembre.

Non un film d'amore, ma un film sull'amore, su come questo sia radicato in tante piccole cose. ma anche, e soprattutto, di come non sempre questo amore basti a far funzionare una relazione. 
Storia di un Matrimonio è in realtà la storia di un divorzio, quello fra Charlie, regista teatrale di successo, e Nicole, la sua musa, e di come spesso le migliori intenzioni finiscano per naufragare quando di mezzo, oltre a rancori mai sopiti e un figlio, ci si mettono anche gli avvocati, precipitando le cose in un vortice legale che assorbe ogni momento della propria vita fino a divorare ogni altro aspetto, dal lavoro alla vita privata.

Noah Baumbach fa un lavoro impeccabile, intrecciando finemente sceneggiatura e regia, raccontando con le parole ma soprattutto con le immagini e i lunghi silenzi che sembrano parlare ancora di più. Fin da subito la scena è costruita per evidenziare la distanza fra i due protagonisti, lontani tanto emotivamente quanto nello spazio, ai lati opposti di una stanza, o seduti separatamente in un vagone vuoto della metropolitana. Inoltre Baumbach insegue perennemente i suoi personaggi, pianta loro addosso la macchina da presa, scava nei loro volti con dei primi piani lunghi e intensi, quasi a voler penetrare all'interno della loro mente per scoprirne i pensieri. Questo è doppiamente interessante, dato che la sceneggiatura, fatta di dialoghi brillanti e cruente litigate, è uno dei punti più forti del film, ma è innegabile che le immagini siano quasi altrettanto importanti nell'introspezione. Diventa qui chiara, anche se non fosse stato lo stesso regista a dichiararlo, l'ispirazione dei film di un maestro come Ingmar Bergman e in particolare di Persona, film in cui i primi piani erano uno strumento attivo nel delineare i personaggi e il loro subconscio.



Diviene imprescindibile, quindi, che in un film del genere gli attori siano all'altezza.  Scarlett Johansson, mai così dimessa, dimostra di essere un'attrice a tutto tondo, capace di passare dall'azione più pura dei film Marvel, a un'interpretazione ottima e sentita che richiede un'intensità del tutto diversa. A giganteggiare, però, è Adam Driver, che si conferma essere uno dei migliori attori della sua generazione e la star hollywoodiana del momento, dotato non solo di capacità interpretative trasversali ma anche di una presenza scenica fuori dal comune.
Da sottolineare, infine, anche una meravigliosa Laura Dern nel ruolo dell'avvocato di Nicole e interprete di un monologo memorabile sul ruolo della donna come moglie e madre nella nostra società.

In bilico fra commedia dolceamara alla Woody Allen, in cui la sfida fra New York e Los Angeles rispecchia due modi di vedere la vita diametralmente opposti, e dramma crudo sull'amore e le relazioni, Marriage Story riesce a essere allo stesso tempo sognante e terribilmente reale, divertente e tremendamente triste, nulla di troppo originale eppure praticamente perfetto.

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