Quello che Wes Anderson fa nel suo nuovo lavoro è andare oltre, unendo fiaba e distopia con contaminazioni derivanti dal Cinema (e in particolare dall'animazione) giapponese e aggiungere una nuova linea a quelle delineate dalla sua macchina da presa, ovvero una linea linguistica, che estranea lo spettatore portandolo dentro un punto di vista insolito per lui: quello dei cani.
Il futuro distopico, scandito dal ritmo battente dei tamburi, è un Giappone in cui un'influenza canina ha gettato la popolazione in un delirio collettivo e i cani vengono deportati su un'isola piena di spazzatura. La fiaba invece ha la musica dei flauti ed è rappresentata da un bambino che si mette alla ricerca del suo cane Spots e dell'amicizia che instaura con un gruppo di cani sull'Isola.
E poi c'è il magico straneamento del sentire gli umani parlare giapponese, incomprensibile alle orecchie di noi occidentali, mentre i latrati dei cani sono tradotti in inglese (in italiano nel nostro paese). La ricerca del piccolo Atari è animata da puro e sincero affetto, ma ha il sapore della ricerca eroica, poiché spinge a una vera rivoluzione e alla riflessione su cosa vuol dire essere umani o essere animali, su cosa sia l'empatia, su cosa voglia dire provare affetto, sul perché a volte anche noi, così come il cane Chief, mordiamo senza saperne bene il motivo.
Ma al di là di questo, ciò che rende meraviglioso L'Isola dei Cani, è che siamo di fronte a un film non solo genuinamente divertente, dove l'umorismo classico del regista si unisce a rimandi più classici all'animazione Disney, ma anche, e soprattutto, a un film incredibilmente commovente, sull'amicizia quella vera, sui sentimenti e su come questi nascono e si consolidano. E c'è tutta la bellezza del cinema di Anderson, composto ma mai rigido, atipico, delicato, a tinte pastello ma d'impatto nel suo essere rigidamente fuori dagli schemi.
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