sabato 27 ottobre 2018

Bohemian Rhapsody - la recensione

Dopo una gestazione durata anni, ecco finalmente sugli schermi inglesi (e, presto, mondiali) una delle storie più incredibili dei nostri tempi, quella di Farrokh Bulsara (Rami Malek), un ragazzo di origini umili, figlio di immigrati parsi, destinato a diventare leggenda.
Il biopic dai colori accesi apre il suo sipario su un Wembley Stadium gremito, pochi istanti prima del suo ingresso sul palco, per poi riportarci indietro, quando un Freddie Mercury poco più che ventenne lavorava come facchino all'aeroporto internazionale di Heathrow, una divisa che gli stava visibilmente "stretta". Freddie scrive canzoni e sogna... Tant'è che una sera, sgattaiolando ad un concerto, conosce Brian May (Gwilym Lee) e Roger Taylor (Ben Hardy), e si fa ingaggiare come cantante per la band "Smile".
Il resto è storia della musica!

Ciò che emerge è da subito la vena creativa che contraddistingue il percorso artistico dei Queen, i quattro sono pronti a vendersi il furgone, loro unico mezzo di trasporto, per incidere il primo pezzo, a usare mestoli, pentole e ogni sorta di utensile da cucina in uno studio di registrazione, o a comporre e registrare "Bohemian Rhapsody" in un fienile. Il loro fare musica è tutto cuore, passione, e divertimento, la concezione di musica come rifugio da dipingere, decorare, arredare, e il loro sentirsi una famiglia, con tutte le delusioni e le soddisfazioni che una convivenza può portare, è lo strumento di connessione che hanno con il mondo e con il pubblico.
"I want to give them a song they can perform!", esclama Brian May, proponendo a Freddie il ritmo di "We Will Rock You". Ed ecco che quattro ragazzi, con il loro sogno, fanno (e continueranno a far) cantare generazioni di persone. La chiusura ciclica ci riporta a Wembley, durante il Live Aid del 1985, tappa finale dei 15 anni di carriera raccontati. A rendere il tutto fluido, ci sono una colonna sonora e un montaggio ben amalgamati.



Con la sua durata di ben 2h 15m, il film mette il luce un Freddie sicuro di sé, attento allo stile, curato, ricercato ed estroso, e la sua testardaggine, il suo egocentrismo, ma accentua anche le crepe del suo animo tormentato. Il conflitto interiore circa la sua sessualità è trattato con dolcezza e rispetto, il suo continuo senso di vuoto, la ricerca di evasione da una soffocante solitudine, e quella stessa famiglia che talvolta rifugge come unica cura a tutto questo dolore. Sebbene sia impossibile non versare qualche lacrima, il film continua ad essere un grido di speranza, per i sognatori, per gli amanti, per chi combatte tutti i giorni i suoi demoni, per chi sta per arrendersi.

La regia, com'è noto, fu affidata inizialmente a Bryan Singer, rimosso dall'incarico a tre settimane dalla fine della lavorazione, al quale è subentrato tempestivamente Dexter Fletcher. Ne risulta un'opera a quattro mani valida, raramente banale.
Singer ha anche firmato la sceneggiatura, molto delicata, e che apparentemente può sembrare superficiale, ma dove si vuole evidenziare non il Freddie Mercury dei rotocalchi che tutti conoscono, bensì quello più profondo, scavando in quegli aspetti che nel quotidiano si tendono a dimenticare parlando di una superstar.
Non manca qualche momento comico, i cui tempi sono molto congeniali, e che alleggeriscono un po' la complessità di alcune scene. Il trucco e la ricostruzione di outfit ed ambientazioni sono il fiore all'occhiello di questa pellicola, che sembra ipnotizzarci e portarci indietro nel tempo.

Il cast è di ottima qualità, anche se in alcune occasioni le performance risultano sottotono. Su tutti spicca ovviamente Rami Malek. Un Freddie Mercury intenso, imponente, magnetico, ma anche tenero e commovente. In alcune sequenze si fa fatica a distinguere la sua silhouette da quella delle immagini di repertorio e video ufficiali, forse anche grazie a un lip sync che inganna non solo vista e udito, ma anche il cuore... che salta qualche battito.

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