C'era davvero bisogno dell'ennesima riproposizione di Pinocchio al cinema?
Dopo aver visto il lavoro fatto per Netflix da Guillermo Del Toro la risposta non può che essere affermativa: sì, di Pinocchio al cinema ci sarà sempre bisogno, specie se, come ha fatto il cineasta messicano, diventa spunto e metafora per parlare di temi universali come la morte, l'elaborazione del lutto e il peso delle aspettative.
La prima cosa che balza all'occhio di questa trasposizione del romanzo di Collodi è che Del Toro decide deliberatamente di prendere dal libro praticamente solo in concept iniziale, ma già dall'inizio la direzione del film è tutt'altra rispetto a ciò cui siamo abituati, lasciando da parte sia Collodi, con la sua morale (a volte molto dark) sui bambini che devono dare ascolto ai genitori, sia la Disney (del classico e della poco riuscita versione live action) con il suo ottimismo romantico.
Il tema portante della storia è la morte, nelle sue varie sfaccettature, da quelle più dolorose fino a quelle più squisitamente "positive", a fine di una vita ben vissuta. Il lutto è un mantello che avvolge tutta la pellicola dall'inizio alla fine, e Pinocchio il burattino ne viene quasi soverchiato. Lutto che è collegato a doppio filo con l'altro grande tema del film, e cioè il peso delle aspettative che gli altri, e in particolare i genitori, ci pongono sulle spalle. I personaggi di Geppetto e del padre di Lucignolo sono infatti due facce di una stessa medaglia, così come lo sono Pinocchio e Lucignolo stessi. Se da una parte infatti abbiamo Geppetto che, oppresso dal dolore per la perdita di un figlio, riversa su Pinocchio l'immagine residua di quel figlio perduto, dall'altra c'è invece un padre che, forse inconsapevolmente, è oppresso dal suo ruolo e riversa sul figlio la sua frustrazione e le sue aspettative in modo crudele. Da questo punto di vista questo è un film di crescita e rivalsa personale tanto per i padri quanto per i figli.
Diventa quindi centrale la figura del Grillo, non più semplice personificazione della coscienza di Pinocchio, ma personaggio a tutto tondo che si evolve e ha un suo arco narrativo funzionale tanto a se stesso quanto a Pinocchio. Anche il Grillo dovrà imparare cosa significa vivere davvero e che forse vivere vuol dire anche morire.
La scelta di trasportare la storia durante la Seconda Guerra Mondiale risulta vincente non solo per la suggestione data dalla presenza del fascismo (e per l'esilarante macchietta che è Mussolini), ma anche perché la guerra e la morte diventano parte integrante delle atmosfere cupe e drammatiche che permeano tutto il film. Una cupezza e una drammaticità che smuovono le lacrime dello spettatore in modo tutt'altro che semplice o ruffiano.
Non si può non applaudire quindi la colonna sonora splendida di Alexandre Desplat che aiuta moltissimo a rendere la visione completamente immersiva.
Con una stop-motion semplicemente perfetta e una storia che rielabora in maniera intelligente e profonda il classico di Collodi, il Pinocchio di Guillermo del Toro è a mani basse uno dei film più belli dell'anno e sarò veramente difficile batterlo nella sua categoria durante la stagione dei premi. E per fortuna.
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