Louis (Gaspard Ulliel), artista e scrittore, torna dalla famiglia che aveva abbandonato dodici anni prima per comunicare la notizia della sua malattia terminale.
Ogni membro della famiglia lo accoglie in maniera diversa: nel fratello maggiore, Antoine (Vincent Cassel), si riaccende una gelosia mai sopita, e anzi aumentata dagli anni di lontananza, e la frustrazione per quel fratello perennemente al centro dell'attenzione; sua sorella Suzanne (Léa Seydoux) non lo conosce, ma lo accoglie a braccia aperte; la madre Martine ( Nathalie Baye) è totalmente impreparata al ritorno del figlio, ma è fiduciosa nella possibilità di recuperare un rapporto che, probabilmente, non è mai esistito; la cognata Catherine (Marion Cotillard), moglie di Antoine e donna talmente insicura da soffrire di balbuzie, non sa davvero come comportarsi con quello che per lei è a tutti gli effetti un estraneo.
Il film del regista canadese Xavier Dolan, presentato a Cannes, ha un impianto molto teatrale (e infatti è tratto dall'omonima piéce), l'azione si svolge quasi esclusivamente all'interno della casa di famiglia e i personaggi sono pochi, un ambienta chiuso al di là del setting vero e proprio, quasi soffocante, in cui le discussione sembrano ripetersi all'infinito, prive di qualsiasi scopo, senza mai risolversi davvero.
Dolan prende i canoni classici del melodramma, li usa in una certa misura (non mancano caldi tramonti e una colonna sonora di archi ad accompagnare le scene) e poi li stravolge, sorprendendo lo spettatore che si trova spiazzato dagli eventi e da un climax che raggiunge l'apice ma non risolve i conflitti, come ci si sarebbe potuti aspettare.
Non sappiamo perché Louis ha lasciato la famiglia tempo addietro, non ci viene mai svelato fino in fondo la storia dei personaggi, ma ne osserviamo uno spaccato di vita, li vediamo congelati in un momento di tensione in cui sono le loro azioni, più che le parole, a dire qualcosa su di loro.
La telecamera sembra inseguirli continuamente e Dolan dimostra qui, ancora più che nei suoi precedenti film, il suo talento di cineasta che non ha paura di uscire dagli schemi, che si disinteressa del pubblico. La storia è banale nella sua semplicità, ma è il modo in cui è raccontata, il modo in cui ogni cosa è diversa da come ci si aspetterebbe a essere davvero interessante. Dolan sovverte le leggi della narrazione e sta allo spettatore venire a patti con questa nuova realtà.
Diviene quindi fondamentale il cast, qui davvero in stato di grazia, perché il peso di una sceneggiatura e una regia tanto minimalista è sulle loro spalle.
Su tutti spicca l'interpretazione misurata e intensa di una straordinaria Marion Cotillard, personaggio che diviene quasi il filtro attraverso cui guardare ai sentimenti e risentimenti degli altri personaggi. Non interviene mai nelle discussioni, eppure è lei ad essere il punto di vista dello spettatore, e la Cotillard riesce a restituire le mille sfumature di una donna di cui, alla fine, non sappiamo nulla.
Melodramma dei più classici, ma allo stesso tempo cinema diverso e sperimentale, È Solo la Fine del Mondo dimostra la crescita ormai inesorabile del talento puro di Xavier Dolan, da vedere e rivedere per cogliere ogni più piccola sfumatura di uno spaccato di umanità.
giovedì 15 dicembre 2016
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