martedì 31 ottobre 2017

[RomaFF12] I, Tonya - la recensione

Tonya Hardin non è particolarmente bella e aggraziata, soffre di asma ed è ciò che gli americani chiamano una redneck, una burina per dirlo all'italiana. Eppure Tonya Hardin è stata una delle più grandi pattinatrici al mondo, la prima americana a completare un triplo axel in una competizione ufficiale, campionessa d'America, quarta alle Olimpiadi, medaglia d'argento ai mondiali. E nel 1994 suo marito pagò uno sbandato per aggredire la sua rivale Nancy Kerrigan a cui ruppe un ginocchio. Le costò la radiazione a vita.


I, Tonya si schiera abbastanza apertamente dalla parte della sua protagonista, il suo desiderio di essere amata, dopo una vita di abusi, è motore e traino per ogni sua azione. Una storia di riscatto quella della Hardin, riscatto da una vita dura e ingiusta che fa del pattinaggio, sport elitario e spesso ingiusto, la metafora dell'America di periferia.
Nonostante i temi trattati siano spesso molto duri, in particolare è crudo e realistico il ritratto degli abusi familiari subiti, il film è una vera e propria dark comedy, con un umorismo graffiante,aiutato dalla rottura della quarta parete che è lo stile del finto documentario.
Ma è il cast la vera forza di questo biopic: se Sebastian Stan è inedito nel ruolo del marito violento e Allison Janney è una perfetta incarnazione della rigida madre, a stupire più di tutti è proprio Margot Robbie, intensa e meravigliosa nel suo essersi calata anima e corpo nei panni della mascolina Tonya. Ci sono pochi dubbi che la sua interpretazione sarà protagonista nella prossima stagione dei premi e, sinceramente, è difficile non fare il tifo per lei.

Tragico e comico allo stesso tempo, I, Tonya è un film che ha nelle sue imperfezioni un punto di forza, ritratto di un'America capricciosa che velocemente ama e altrettanto velocemente odia i suoi beniamini.

Halloween - Il risveglio dell'Horror al cinema

Quel è il modo migliore per dare una scossa alla notte di Halloween? Ovviamente un bel film horror!

Negli ultimi anni si è assistito a un fenomeno molto interessante nel Cinema, una vera e propria rinascita del genere horror. Grazie a piccoli prodotti indipendenti e a giovani registi con le idee molto chiare, l'horror negli ultimi 5-6 anni sta vivendo una seconda (o terza, o quarta) giovinezza.

Ecco cinque titoli di cinque registi diversi che, ognuno a loro modo, con storie originali, tratte da libri o dalla realtà, o con remake molto rischiosi, hanno portato una ventata nuova nel genere.



The Conjuring - L'Evocazione (2013)

Diretto da James Wan, il film ha portato sul grande schermo dei personaggi reali, cioè i coniugi Warren, due "demonologi" che negli anni hanno indagato su diversi fatti oscuri e inspiegabili, e che in passato hanno ispirato anche altri film, come la saga di Amtyville.
The Conjuring - L'Evocazione rientra perfettamente nel genere "casa infestata", crea una bella tensione per tutta la durate del film, regala momenti da brivido e quelle situazioni in cui (fisicamente) si salta dalla sedia.
Merito della riuscita del film è da attribuire anche al cast, ottimi i due protagonisti Patrick Wilson e Vera Farmiga (i Warren).
The Conjuring - L'Evocazione ha segnato gli ultimi anni anche perché ha dato il via a un serie di film,  c'è stato un sequel, The Conjuring - Il Caso Enfield, e un due spin-off, Annabelle e Annabelle 2, dedicati alla bambola demoniaca (che la signora Warren conserva nel suo museo dell'occulto). Inoltre sono stati annunciati già altri due spin-off dedicati a due personaggi apparsi (nel vero senso della parola) nel sequel, cioè la suora malefica e Crooked Man.


The Witch (2015)

Acclamato horror diretto da Robert Eggers, The Witch ha conquistato il pubblico del Sundance Film Festival 2015, vincendo il premio per la regia. Un piccolo film, costato solo 3 milioni di dollari, ha finito per incassarne più di 40, meritandoli tutti e diventando una vera perla del genere.
The Witch è un film cupo e disturbante, che ricorda la più nera delle favole ma che, dietro al male, alla stregoneria, al satanismo, nasconde l'orrore più spaventoso all'interno delle mura familiari.
Tecnicamente il film è davvero lodevole, molto diverso dai soliti horror di oggi, e girato tutto con luce naturale. Ottima la protagonista Anya Taylor-Joy.

Qui la nostra recensione.


La Casa (2013)

Fare il remake di un classico non è sempre una buona idea, è un rischio, soprattutto se il classico in questione è La Casa di Sam Raimi, un film che ha segnato un'epoca. A prendersi questo rischio è stato Fede Alvarez, che però poteva contare su un grande aiuto: Sam Raimi.
Il storia ripropone la classica situazione del gruppo di ragazzi in una casa isolata in cui anni prima si era consumato un rito per liberare una ragazza posseduta da un demone. Proprio perché la storia è praticamente la stessa dell'originale (e simili a tanti altri film che sono venuti dopo La Casa di Raimi), Alvarez decide di puntare tutto sulle immagini dure, su scene molto violente, sanguinolente, masochistiche e spaventose, senza inserire nessun tipo di alleggerimento umoristico.

Qui la nostra recensione.


Get Out (2017)

Uno dei casi dell'anno. Get Out di Jordan Peele ha avuto un incredibile successo, costato meno di 5 milioni, il film ha incassato la bellezza di 252 milioni di dollari nel mondo.
Get Out è un thriller/horror, che parte dalla più classica delle situazioni di vita: un ragazzo che deve incontrare i genitori della sua ragazza. Il ragazzo in questione è un afroamericano e la sua ragazza, e la sua famiglia, sono tutti bianchi, ma della trama è meglio non rivelare nulla.
Get Out è un film atipico del genere, è un ottimo mix di tensione, angoscia e commedia... dopotutto il regista Jordan Peele è un comico.

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It (2017)

Tratto dal capolavoro horror del maestro della letteratura dell'orrore (e non solo) Stephen King, il 2017 ha visto il ritorno, stavolta al cinema, del clown più spaventoso della storia, Pennywise. Non era per niente facile per Andy Muschietti (La Madre) riuscire a portare sul grande schermo un libro che non è solo horror ma è molto di più, va molto più in profondità, e con grande intelligenza Muschietti ha saputo realizzare una trasposizione moderna ma che somiglia molto più ai classici horror piuttosto che ai sanguinolenti film dell'orrore di oggi. La trama, la storia, i personaggi, non solo It ma soprattutto i ragazzi protagonisti, fanno la differenza.
Il clown Pennywise è uno dei personaggi più celebri dell'horror, è la personificazione del Male, è un incubo ricorrente, è un personaggio che inquieta e perseguita, che nel film regala ottimi momenti di horror. E' un bene che sia tornato al cinema in questa forma smagliante.

Qui la nostra recensione.

domenica 29 ottobre 2017

[RomaFF12] Last Flag Flying - la recensione

Tre vecchi compagni d'armi, insieme in Vietnam, ormai vecchi e pieni di traumi e sensi di colpa non sempre risolti, accompagnano uno di loro che deve seppellire suo figlio, morto in Iraq.

Da una storia tutto sommato semplice, trasposizione del romanzo omonimo di Darryl Ponicsan è sequel del film The Last Detail del 1973 (anch'esso tratto dal romanzo di Ponicsan), Richard Linklater dimostra ancora una volta che prima di essere un ottimo regista è un grandissimo sceneggiatore.
In Last Flag Flying riesce a trasformare il viaggio fisico dei tre protagonisti in un viaggio interiore, con naturalezza e senza facili moralismi, sfruttando un impianto quasi teatrale nei dialoghi e nelle situazioni e sfruttando la bravura del trio Carell-Cranston-Fishburne, davvero in stato di grazia.

La riflessione su un'America ancora profondamente scossa dall'11 settembre e incapace di ritrovare se stessa se non immergendosi nuovamente in una guerra che, come il Vietnam anni prima, sembra incapace di vincere davvero e che porta solo a nuove insicurezze. L'ossessione per la verità e per il suo significato permea l'intera pellicola, in particolare il personaggio interpretato da Bryan Cranston ne rappresenta l'espressione diretta, ma anche la verità deve scontrarsi con ciò che è giusto, con la fede e con il dolore per la perdita di un figlio.
Si ride molto, nonostante non sia affatto un film allegro, ed è sempre una risata positiva, speranzosa e nonostante tutto mai amara, così come si piange e ci si commuove per una storia che colpisce il cuore per come riesce a essere vera e semplice nella sua verità.
Due ore che scivolano via senza mai pesare, tre uomini che si ritrovano, si riconoscono e alla fine imparano qualcosa in più su se stessi, così come fa lo spettatore che alla fine ha l'impressione di essersi guardato dentro.
Linklater non sbaglia mai, Last Flag Flying è un film stupendo.

venerdì 27 ottobre 2017

Thor: Ragnarok - la recensione

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Ragnarok. Nella mitologia norrena questa parola così grave sta ad indicare la fine di tutto. L'arrivo di un male incontrastabile pronto a spazzare via la grandezza di Asgard.
Ci si aspetterebbe un film quindi grave, cupo, imponente ed epico... Quasi.
La Marvel, per rilanciare il franchise del norreno Dio del Tuono ha scelto Taika Waititi, eccentrico regista australiano, noto al grande pubblico per What We Do In The Shadows, esilarante mockumentary su un gruppo di vampiri che vive al giorno d'oggi.
La scelta è netta, quindi, ma il risultato avrà dato ragione agli Studios? La risposta è un netto Sì.

Waititi incarta un prodotto brillante, atipico e fresco. E' evidente che l'ago della bilancia penda verso il modello space opera regalatoci da Guardiani della Galassia. Fare un confronto risulterebbe complicato, l'importante è sapere come approcciarsi al film.
Thor: Ragnarok è una pellicola che scontenta i brontoloni, abbandonando la serietà di Captain America: Civil War, a favore di due ore e dieci minuti piene, pienissime di battute, gag e spirito fumettistico che trasuda.

I protagonisti si divertono un mondo nell'interpretare i loro personaggi e si vede. Chris Hemsworth e Tom Hiddleston, al secolo Thor e Loki, sono entrati alla perfezione nelle loro dinamiche di amore-odio, fratello-fratellastro, e quando sono posti davanti a siparietti anche troppo infantili, la loro "serietà" nel ruolo aiuta alla grande a produrre un bell'effetto comico.
L'unica nota stonata, forse, riguarda Cate Blanchett e non è di natura qualitativa. L'attrice premio Oscar per Blue Jasmine conferma la sua poliedricità, interpretando alla perfezione Hela, la cattivona di turno, pronta a radere al suolo Asgard dalle fondamenta. Peccato che, a causa della mancanza di tempo, nonostante le durata notevole, non riusciamo mai ad assaporare a pieno il gusto di questo personaggio, che riservava un gran bel potenziale. Alcuni diranno che Hulk parlava in maniera troppo infantile, invece, col taglio voluto per questa storia, un mostro verde e scemo è tutto ciò che serviva.

Risultati immagini per thor ragnarok wallpaperA livello tecnico il film esprime i suoi pregi migliori, con una fotografia vivacissima, che ben si lega alla colonna sonora che, complice la presenza di qualche attore ben identificato *cough* Jeff Goldblum *cough* ci riporta alla fine del 20esimo Secolo.
Il tutto è uno spettacolo per gli occhi, coloratissimo, "fumettosissimo".
Volendo trovare un problema, il difetto più grande, che poi è ancora la forza di questo film, è la costante presenza di battute, che smorzano, a volte l'epicità di alcuni momenti. Tutto sommato, però, Thor: Ragnarok colpisce in pieno quello che un film dovrebbe fare: intrattenere, e lo fa con la I maiuscola.

[RomaFF12] Hostiles - la recensione


Ad aprire la Festa del Cinema di Roma, giunta alla sua dodicesima edizione, è un western, all'apparenza estremamente classico nella contrapposizione fra soldati e pellerossa, ma allo stesso tempo incredibilmente moderno.
 Il Capitano Joe Blocker (Christian Bale) deve scortare il temuto Capo Cheyenne Falco Giallo, ormai anziano e morente, e la sua famiglia dal Nuovo Messico fino alle loro terre natie nel Montana. Durante il viaggio Joe e i suoi uomini si imbattono in una donna (Rosamund Pike) che ha visto sterminare la sua famiglia da un gruppo di Comanches.
Una trama semplice e lineare, un viaggio che ben presto diventa il viaggio nel cuore e nell'anima dei protagonisti.
Scott Cooper scrive e dirige un racconto che è lo specchio dei nostri tempi e lo fa paradossalmente calandosi in un contesto storico ben preciso, quello subito riconoscibile della Frontiera Americana e dello scontro di civiltà che vide contrapporsi gli invasori Americani e i Nativi, uno scontro violento da ambo le parti, in cui anche la resistenza al feroce colonialismo rappresentata da Falco Giallo assume una connotazione tutt'altro che innocente.

Nel percorso del protagonista, interpretato da un grandissimo Christian Bale, c'è un augurio utopistico di comprensione e fratellanza, ed è significativo che a mediare e favorire l'amicizia fra i due fronti vi sia una donna che ha perso tutto ma che continua ad avere una fede incrollabile, portatrice di speranza anche nei momenti più bui.
Una regia elegante e la fotografia che mette in risalto i paesaggi maestosi e selvaggi dell'America incontaminata fanno il resto e riescono a far passare in secondo piano anche alcuni cali di ritmo nella parte centrale che altrimenti sarebbero risultati ben più fastidiosi.
Il finale, poi, è magnifico e rivela l'intera essenza del film, commuovendo profondamente lo spettatore e regalando forse l'immagine più bella dell'intera pellicola.
Un'apertura da cui non si poteva chiedere di meglio.

lunedì 23 ottobre 2017

It - la recensione

A 27 anni dalla miniserie tv cult, torna, stavolta sul grande schermo, il capolavoro horror di Stephen King It.

Derry, 1988. Il piccolo Georgie esce a giocare sotto la pioggia quando la sua barchetta di carta finisce in uno scolo della fogna. Georgie si affaccia per vedere se può recuperarla ma nella fogna compare uno strano clown di nome Pennywise che ha la sua barchetta. Georgie si intrattiene a parlare con lui e poi... sparisce, sull'asfalto, nell'acqua, resta solo una striscia di sangue.
Passa un anno, 1989, a Derry non è scomparso solo Georgie ma tanti altri ragazzi. Nessuno sa perché i bambini spariscono e, peggio ancora, nessuno sembra interessarsene più di tanto. Solo Billy, convinto che Georgie possa ancora essere vivo, e i suoi amici ci pensano, si preoccupano, e a modo loro indagano. Billy, Richie, Eddie e Stanley, a cui si aggiungeranno Beverly, l'unica ragazza, Ben e Mike, sono il "club dei Perdenti", ragazzini vessati dai bulli che uniscono le forze. Tutti, uno per volta, cominceranno a vedere "It", entrando in contatto con il Male Assoluto che vive sotto la loro città.

Tra tutti i libri di Stephen King, It è senza ombra di dubbio uno dei più belli e affascinanti che abbia mai scritto. E' considerato il suo capolavoro ed è un'opera enorme, più di 1200 pagine in cui oltre alla storia principale lo scrittore racconta le vicende e le varie storie dei protagonisti, la città (Derry, la stessa di altri libri di King), e ci sono diverse digressioni, un'opera che non è solo un horror ma anche un vero e proprio libro di formazione.
Un libro difficilissimo da adattare, anzi si può dire che è praticamente impossibile riportare tutto in uno (o due) film, per questo motivo bisogna fare grandi complimenti al regista Andy Muschietti (La Madre) e agli sceneggiatori per il modo in cui sono riusciti ad adattarlo. Hanno avuto il coraggio di tagliare molte parti (senza aver paura dei "puristi"), cambiare alcuni aspetti della storia (es. lo spostamento temporale dagli anni '50 agli anni '80) e anche ad inventare da zero alcune scene, riuscendo però a non intaccare in nessun modo lo spirito del libro, lo spirito di King.

La parte più spaventosa della storia è ben fatta, il film regala ottimi momenti horror e la figura del clown Pennywise viene avvertita come una inquietante e pericolosa presenza malvagia che per tutto il film incombe sui giovani protagonisti. Altrettanto ben fatta è l'altra parte della storia, quella che vede al centro il "Club dei Perdenti", la loro amicizia, i loro problemi, tra famiglie assenti o dannose,i  bulli (cattivi quasi quanto Pennywise) e l'innocenza dell'età (esemplare la scena in cui Bev si unisce al gruppo suscitando grande imbarazzo nei maschi). Rispetto al libro la caratterizzazione dei personaggi è più superficiale, per mancanza di tempo, ma anche in questo caso lo spirito del libro di King non viene mai tradito.

Tecnicamente il film è ineccepibile, con una regia capace supportata da una bella fotografia e delle scenografie molto accurate e coinvolgenti. Buono anche l'uso degli effetti speciali, mai invasivi.
Ottimo il cast, e anche qui bisogna fare i complimenti a chi ha scelto gli attori. Bill Skarsgård è un ottimo Pennywise, è decisamente inquietante e da incubo, più che con le parole riesce a provocare brividi grazie a una grande presenza scenica. Perfetti i ragazzini protagonisti: Jaeden Lieberher, Wyatt Oleff, Jeremy Ray, Jack Dylan Grazer, Chosen Jacobs, Finn Wolfhard (Mike in Stranger Things) e Sophia Lillis (che spicca più di tutti, anche perché è l'unica ragazza). Se il "Club dei Perdenti" entra nel cuore dello spettatore è soprattutto grazie a questo gruppetto di giovani attori.

It è un horror ma non solo, è un film capace di abbracciare un pubblico più ampio dei soli fan delle pellicole d'orrore. Intrattiene, diverte, fa saltare sulla sedia ed emoziona. Farà venir voglia di leggere (o rileggere) il libro. Ora aspettiamo solo il secondo capitolo.

venerdì 20 ottobre 2017

Mindhunter (stagione 1) - la recensione


E' finalmente arrivata su Netflix la prima stagione di Mindhunter, una selle serie più attese di questo autunno sia per i temi trattati (la nascita di quella sezione dell'FBI che si occupa di scienze comportamentali e profilazione dei serial killer), che soprattutto per i nomi coinvolti nel progetto.
Infatti a dirigere ben quattro dei dieci episodi, i due iniziali e i due finali, che compongono questa prima stagione è nientemeno che David Fincher, regista che non ha bisogno di presentazioni e che si è già occupato di serial killer in Seven e nel bellissimo Zodiac del 2007.
Il pilot, pur nel suo essere probabilmente l'episodio più debole fra i dieci per presa narrativa e ritmo, mette subito in luce il talento del regista americano, capace di creare tensione in scene in cui, sostanzialmente, non c'è altro che dialogo. Proprio come succedeva in The Social Network, infatti, la prima stagione di Mindhunter non è altro che un lungo susseguirsi di dialoghi, che sia fra l'agente Holden Ford (Jonathan Groff, già protagonista di Looking) e il suo collega Bill Tench (Holt McCallany), o fra i due agenti e un efferato serial killer, si rimane incollati allo schermo, incapaci di distogliere lo sguardo, totalmente rapiti da una tensione che non scende mai e che anzi non fa che aumentare per tutti gli episodi, fino a esplodere nel finale.

La scrittura serrata e la regia magistrale sono aiutate da una scelta di casting azzeccatissima: ai già citati Groff e McCallany vanno aggiunti Anna Torv, che torna in una grande produzione televisiva dopo Fringe, e soprattutto Cameron Britton che veste gli enormi e inquietanti panni del killer Ed Kemper, alto più di due metri e dal sorriso mellifluo è protagonista indiscusso dei momenti migliori che la serie ha da offrire.

Se si cerca un poliziesco canonico, sicuramente Mindhunter non è la serie adatta: è facile seguirne le diverse ispirazioni, dai romanzi di Harris su Hannibal, alla serie omonima di Fuller, ai momenti di scontro verbale fra Clarice Starling e Hannibal Lecter in Il Silenzio degli Innocenti, e naturalmente nei lavori di David Fincher. Manca totalmente l'azione in senso stretto, manca quasi del tutto il caso da risolvere, perché l'azione è data dall'introspezione psicologica dei personaggi, da ciò che li muove e dalle domande che si pongono sul mondo e su loro stessi, mentre il caso da risolvere non è altro che l'analisi più profonda della psiche, la risoluzione alla domanda del perché un uomo arriva a commettere delitti così efferati, quale sia lo schema che lo muove.

Ben lontana quindi da essere una serie statica e noiosa, Mindhunter è un vero e proprio vortice di tensione che cattura con l'efficacia dei dialoghi, la bravura del cast e la dinamicità della regia, trascinando lo spettatore in un bingewatching cui è difficile resistere. In attesa della già confermata seconda stagione.

Weinstein: "Sapevo ma non ho fatto nulla", il mea culpa di Tarantino

Lo scandalo Weinstein si allarga sempre di più, altre denunce, altre testimonianze di violenze e molestie che non solo fanno emergere un vero e proprio modus operandi criminale del produttore, ma anche una vasta rete di omertà che ha permesso a Weinstein di agire sotto gli occhi di tutti e senza che nessuno facesse qualcosa.

In una lunga intervista al New York Times, Quentin Tarantino ha fatto mea culpa, ammettendo di aver sempre saputo del comportamento del suo amico e produttore Harvey Weinstein, e che come lui erano davvero in molti a sapere.

"Sapevo abbastanza da fare di più di ciò che ho fatto", ha confessato onestamente Tarantino, "Non erano semplici voci di corridoio, non erano notizie di seconda mano. Sapevo direttamente di almeno un paio di questi episodi. Avrei voluto prendermi la responsabilità di quanto avevo saputo. Se avessi fatto ciò che andava fatto, avrei dovuto smettere di lavorare con lui".

Uno dei fatti a cui Tarantino si riferisce sono le molestie subite dalla sua ex fidanzata Mira Sorvino, che aveva raccontato al regista del massaggio che Weinstein le aveva fatto prendendola alle spalle e delle sue pressanti avances (tanto che è dovuta scappare dall'albergo). Ma anche dopo averlo saputo, Tarantino confessa di non aver fatto praticamente nulla. "Ero scioccato e sconvolto", ha dichiarato il regista, "Io ero come "Davvero? davvero?". Non riuscivo a credere che avesse fatto una cosa del genere apertamente, ma ho pensato che all'epoca [Weinstein] fosse particolarmente preso, infatuato da Mira [che aveva appena vinto l'Oscar], e così aveva oltrepassato il limite. Ma siccome io uscivo con lei, immaginavo che sapesse che a quel punto non avrebbe potuto più farle nulla, non avrebbe più potuto avvicinarsi. Finii per pensare qualcosa come la classica situazione anni ’50/’60 del capo che rincorre la segretaria intorno alla scrivania. Come se fosse normale! È una cosa che mi fa vergognare moltissimo ora".
Mira Sorvino e Quentin Tarantino
L'altro fatto di cui Tarantino era a conoscenza era la brutta vicenda riguardante Rose McGowan (ha accusato di stupro il produttore), che ha lavorato con il regista in Grindhouse - A Prova di Morte (2007), e sapeva anche che Weinstein l'aveva pagata per non parlare, e adesso di rammarica molto di aver minimizzato i fatti. "Quello che ho fatto è stato marginalizzare quegli eventi, e qualsiasi cosa dica ora a riguardo sembrerà una semplice stupida scusa", ha detto il regista.

Tarantino ha ammesso però di non aver mai pensato alla quantità di abusi commessi da Weinstein, non ha mai pensato a un quadro così ampio, ma ha anche dichiarato apertamente che tanti sapevano e ha lanciato un appello affinché anche gli altri parlino: "Chiunque fosse abbastanza vicino a Harvey ha sentito almeno uno di questi racconti, era impossibile non sentirne parlare", ha detto il regista, "Abbiamo permesso che andasse così, ha operato in un sistema quasi alla Jim Crow, tollerato da noi maschi. Per questo invito a parlare anche gli altri uomini che conoscevano queste cose. Non abbiate paura. Riconoscete il marcio. Fate di più per le vostre sorelle. Ciò che era accettato ora non può essere tollerato da chiunque abbia un minimo di coscienza".
Il messaggio è ovviamente rivolto agli attori e registi (o collaboratori, davvero qualcuno crede che Bob Weinstein non sapesse nulla?) che oggi scrivono messaggi di solidarietà dicendo di non aver mai saputo nulla e invece sapeva abbastanza e non hanno parlato.

Intanto, altre testimonianze di molestie, mentre si viene a sapere che ci sarebbe un'altra italiana tra le abusate da Weinstein.
Anche Lupita Nyong'O ha dichiarato di aver subito molestie e il copione è sempre lo stesso: hotel e massaggio. L'attrice ha dichiarato di aver ricevuto pesanti avance dal produttore in più di una occasione ma di averlo sempre respinto fino al giorno in cui è arrivata la proposta del massaggio che l'attrice ha ammesso di avergli fatto per cercare di guadagnare tempo ed evitare il peggio. "Ora che ne stiamo parlando, facciamo in modo che non ci sia più silenzio su cose del genere", ha detto l'attrice premio Oscar, "Facciamo sì che questo tipo di comportamento non meriti una seconda chance. Io parlo per contribuire alla fine della cospirazione del silenzio".

Il tweet di Courtney Love
Un'altra testimonianza è arrivata da Lena Headey, che ha raccontato un primo tentativo di approccio durante il Festival di Venezia 2005, approccio a cui l'attrice ha risposto tirandosi indietro e praticamente ridendo in faccia a Weinstein, e poi un secondo molto più teso e spiacevole in cui, con la scusa di parlare di un film e darle un copione, il produttore ha "scortato" l'attrice nella sua camera d'albergo a Los Angeles. "Siamo usciti dall'ascensore e siamo andati verso la sua stanza. La sua mano era sulla mia schiena, mi spingeva avanti senza dire una parola e mi sono sentita completamente impotente. Ha provato ad aprire la porta ma la sua chiave non funzionava, lì si è davvero arrabbiato", ha scritto l'attrice su Twitter. Weinstein poi, tenendola stretta per il braccio l'ha riportata nella hall dell'albergo. "Mi ha sussurrato nell'orecchio 'Non dire niente di tutto questo, nemmeno al tuo manager o al tuo agente'. Sono salita in macchina e ho pianto", ha concluso la Headey.

A chi si chiede (soprattutto in Italia) perché le attrici non hanno parlato prima, come se da vittime dovessero giustificarsi, una risposta arriva da Courtney Love, che intervistata su un red carpet nel 2005 aveva dichiarato: "Cosa consiglio a una giovane attrice? Se Harvey Weinstein vi invita al suo party privato al Four Season, non andate". Un commento passato totalmente inosservato, quasi come una battuta, e invece non lo era e la cantante e attrice l'ha pagata visto che subito dopo è stata cacciata dalla CAA (la Creative Artists Agency).

giovedì 12 ottobre 2017

Weinstein: aumentano le storie di molestie. Parlano anche Cara Delevingne e Lea Seydoux

Lo scandalo Weinstein che sta travolgendo Hollywood si allarga sempre di più.

La Weinstein Company ha scaricato il produttore. La compagnia si è detta totalmente estranea e, tramite un comunicato, ha dichiarato di non aver mai saputo nulla sulla condotta di Harvey Weinstein. Anche il fratello Bob, produttore, ha dichiarato di essere sempre stato all'oscuro di tutto e che suo fratello è un "uomo malato". Harvey Weinstein ha risposto chiedendo di non essere licenziato e di avere una seconda chance.
Ieri intanto la polizia è dovuta intervenire in casa della figlia di Weinstein a causa di una furiosa lite di famiglia.

Si muovono anche l'Academy e i BAFTA, che ha già comunicato di aver escluso il produttore dalla membership.
"L’Academy trova assolutamente ripugnante la condotta descritta nelle accuse che vengono mosse contro Harvey Weinstein. Tale comportamento è del tutto antitetico ai nostri standard", ha dichiarato il portavoce degli Academy Awards.
Molto probabilmente quindi Weinstein perderà anche il suo ruolo di membro dell'Academy.

E, a proposito di Academy, nelle ultime ore molti si sono ricordati di una battuta di Seth MacFarlane, presentatore degli Oscar 2013, in cui il comico aveva detto: "Complimenti alle candidate, nessuna di voi dovrà più far finta di essere attratta da Harvey Weinstein". Con un post su Twitter MacFarlane ha spiegato che quella non è stata solo una battuta.

"Nel 2011, la mia amica e collega Jessica Barth, con la quale avevo lavorato in Ted, si era confidata con me sul suo incontro con Harvey Weinstein e mi aveva parlato delle sue tentate avances nei suoi confronti. Poi, ha avuto il coraggio di parlarne apertamente", ha scritto MacFarlane, "È stato con questa consapevolezza in mente che, quando ho presentato gli Oscar nel 2013, non ho resistito all'opportunità di fare una battuta in questo senso. Nessuno sbaglio, è venuta fuori da un sentimento di sdegno e di rabbia. Non c’è niente di peggio e di più indifendibile di un abuso di potere di questa tipologia".

Ennesima conferma che le voci sul comportamento e gli abusi di Weinstein giravano da tempo a Hollywood. Il fatto che non ci sia mai stato un seguito alle voci fa capire quanto il produttore fosse influente e potente.

Intanto, alla lista delle donne che hanno avuto delle "sgradevoli esperienze", come le ha chiamate Angelina Jolie, ma che di fatto sono molestie, con Weinstein si aggiungono anche Cara Delevingne e Lea Seydoux.
La modella e attrice britannica ha scritto un lungo post su Instagram in cui racconta la propria esperienza, decisamente sgradevole, in cui si è trovata all'inizio della sua carriera di attrice, quindi poco tempo fa. Ecco il suo racconto.

"Quando ho iniziato a lavorare come attrice, ho ricevuto una chiamata da Harvey Weinstein in cui mi chiedeva se avessi fatto sesso con qualcuna delle donne con cui mi fotografavano i media. Era una chiamata molto bizzarra e spiacevole. [...] Uno o due anni dopo, ho avuto un incontro con lui nel lobby di un hotel assieme a un regista con cui stavo per lavorare. Il regista se n’è andato e Harvey mi ha chiesto di rimanere per chiacchierare. Non appena siamo rimasti soli ha iniziato a parlare di tutte le attrici con cui è andato a letto e come lui abbia costruito la loro carriera. Diceva tante cose inappropriate di natura sessuale. Poi mi ha invitato nella sua camera. Ho prontamente rifiutato e ho chiesto alla sua assistente se la mia macchina fosse pronta. Lei ha risposto di no e che non sarebbe stata pronta per un po’ e che sarei dovuta andare in camera con lui. In quel momento mi sentivo molto impotente e spaventata, ma non volevo darlo e vedere. [...] Quando sono entrata in camera sua mi sono sentita sollevata nel trovare un’altra donna, e ho pensato subito di essere al sicuro. Ci ha chiesto di baciarci e lei ha iniziato a provarci con me sotto sue direzioni. [...] Mi sono alzata subito e gli ho chiesto se sapesse che io ero capace di cantare. E ho iniziato a cantare… pensavo che avrebbe migliorato la situazione… più professionale… come un’audizione… ero così nervosa. Dopo aver cantato ho detto nuovamente che dovevo andarmene. Mi ha accompagnato alla porta ma è rimasto lì, ha cercato di baciarmi in bocca, io l’ho fermato e sono riuscita a uscire".

Queste invece le parole di Lea Seydoux al Guardian.
"Ci siamo incontrati nel lobby del suo hotel. La sua assistente, una giovane donna, era lì. Durante tutta la serata, lui ha flirtato con me. Mi guardava come un pezzo di carne. Aveva uno sguardo lascivo", ha detto l'attrice che poi ha ricordato come le cose sono degenerate una volta che la sua assistente li ha lasciati soli, "Ha iniziato a perdere il controllo, stavamo parlando sul divano, e mi ha saltato addosso provando a baciarmi. Io mi sono dovuta difendere. Lui è grosso e grasso, quindi ho dovuto usare la forza per resistere. Sono andata via dalla sua stanza, assolutamente disgustata. Non avevo paura di lui comunque. Perché sapevo che tipo di uomo fosse. Tutti sapevano chi era Harvey e nessuno ha fatto nulla... per decenni".

Da sottolineare come i racconti di tutte le donne che stanno denunciando il produttore siano molto simili, era quindi un vero e proprio modus operandi del produttore e di chi gli ha sempre retto il gioco.
Continuano anche i messaggi di solidarietà e di condanna da parte di attori, attrici e registi, come Emma Watson, Evan Rachel Wood, Beneditc Cumberbatch, Scott Derrickson, Ewan McGregor, Leonardo DiCaprio, Kristin Scott Thomas, e Colin Firth. In particolare Firth ha dichiarato di sentirsi davvero disgustato da quanto sta venendo fuori, parlando poi della "potenza" di Weinstein e del coraggio di chi ha denunciato. "E' un uomo potente e spaventoso da affrontare", ha detto Firth, "Deve essere stato terrificante per queste donne venire fuori e affrontarlo. E orribile aver subito questo tipo di molestie. Il loro coraggio è da applaudire".

A tal proposito, mentre all'estero le donne che hanno parlato ricevono complimenti per il coraggio, in Italia una vera marea di fango e insulti sta travolgendo Asia Argento, "colpevole", secondo saccenti utenti online e pseudo giornalisti, di aver denunciato troppo tardi o di aver parlato solo per farsi pubblicità. Irripetibili gli insulti che sta ricevendo, di una volgarità davvero sconcertante. Una situazione vergognosa che andrebbe condannata in modo unanime e invece sta passando quasi inosservata.

martedì 10 ottobre 2017

Hollywood contro Harvey Weinstein dopo le accuse di molestie sessuali

Un'ombra cupa aleggia su Hollywood.

La notizia delle decine di denunce per molestie sessuali contro Harvey Weinstein, uno dei produttori cinematografici più importanti e prolifici, hanno scosso violentemente l'opinione pubblica americana, la politica e, ovviamente, il mondo del cinema.
Un quadro davvero sconcertante quello che sta venendo fuori dai racconti e dalle dichiarazioni delle vittime, portate alla luce da un'inchiesta del New York Times. Sconcertante quanto la notizia delle otto donne che sarebbero state pagate per non denunciare, o come l'ammissione di colpa dello stesso Weinstein, che con una lettera si è scusato per il suo comportamento, ammettendo di fatto di aver davvero molestato tutte quelle donne. Una difesa in cui però il produttore ha anche scritto che è cresciuto negli anni '60/'70, "quando tutte le regole di comportamento sul posto di lavoro erano diverse. Quella era la cultura all'epoca". Della serie, quando la toppa è peggiore del buco.

Nelle ultime ore si sono susseguiti commenti e condanne da parte di attori, attrici e registi che hanno lavorato, anche più di una volta, con il produttore.
Tra le dichiarazioni più rilevanti e decise (e retwittate) ci sono quelle di Kate Winslet e Glenn Close [nelle foto]. Molto dura anche Jessica Chastain, tra le più attive online sull'argomento, che ha esortato gli uomini a prendere posizione e poi riguardo Harvey Weinstein ha scritto: "Ero stata avvisata fin dall'inizio. Queste storie giravano da tempo. Negare che sia accaduto significa creare le condizioni affinché accada di nuovo".


Anche George Clooney ha commentato l'accaduto e anche lui ha ammesso che le voci c'erano e da molto tempo: "Avevo sentito delle semplici voci, negli anni 90, su alcune attrici che erano state con Harvey per avere un ruolo. Ma quando apprendiamo che otto donne sono state pagate [per non sporgere denuncia]... in questo caso siamo su un piano del tutto diverso e non c’è alcun modo di venirne fuori bene. Non c’è niente da dire se non che è un comportamento indifendibile".

Commento di Glenn Close
Jennifer Lawrence ha definito "disturbanti" le notizie su Weinstein: "Ho lavorato con Harvey e non ho subito alcuna forma di molestia, né ho mai saputo nulla di queste accuse. Trovo che questo genere di abusi sia del tutto intollerabile. Il mio cuore è con tutte le donne che hanno dovuto subire un comportamento simile. Vorrei ringraziarle di persona per il coraggio che hanno avuto nel parlarne apertamente".
Kevin Smith ha scritto su Twitter di provare vergogna per aver collaborato con Weinstein: "Ha finanziato i primi 14 anni della mia carriera e ora so che, mentre io facevo profitti, c’era chi stava provando una grande sofferenza. Tutto questo mi fa provare una gran vergogna".

Il regista James Gunn, oltre a due durissimi tweet, ha scritto una lunga lettera pubblicata da diversi siti e riviste di cinema. Dame Judi Dench ha dichiarato di essere stata sempre completamente all'oscuro riguardo a questi comportamenti, e ha espresso solidarietà alle vittime. Commenti molto simili anche da parte di Emma Thompson, Seth Rogen, Mark Ruffalo, Jeff Bridges, Julianne Moore, Lena Dunham, e tanti altri.

Tra i commenti più attesi quello di Meryl Streep, che nel 2012 dal palco dei Golden Globe aveva chiamato Weinstein "Dio". L'attrice si è detta disgustata. "Le donne coraggiose che hanno fatto sentire la loro voce per denunciare gli abusi sono eroine", ha scritto la Streep in un comunicato, aggiungendo: "Non tutti sapevano. Io non sapevo degli accordi economici con attrici e colleghe; non sapevo degli incontri in stanze d'albergo, nel bagno o di altri atti inappropriati e coercitivi. Harvey è sempre stato rispettoso con me e con molti altri con cui ha lavorato. Non sapevo di queste azioni, non sapevo che avesse avuto incontri nella sua camera d’albergo, nel suo bagno, o compiuto azioni inappropriate o violenze. Il comportamento è imperdonabile".

Commento di Kate Winslet
Tra queste donne coraggiose ci sono le attrici Ashley Judd, che ha raccontato di come il produttore volesse che lei lo guardasse fare la doccia, e Rose McGowan, che su Twitter ha postato una sua foto di qualche anno fa scrivendo "Questa è la ragazza che è stata ferita da un mostro", ma nelle ultime ore si sono aggiunte altre testimonianze, di persone famose e non. Una di queste è Romola Garai. L'attrice britannica ha raccontato di aver incontrato il produttore quando aveva 18 anni, perché anche dopo i provini le attrici dovevano essere "personalmente approvate da lui". L'attrice ha dichiarato di essere stata ricevuta in una stanza d'albergo con Weinstein che gli ha aperto la porta in vestaglia. "Avevo solo 18 anni. Mi sono sentita violata", ha detto l'attrice che ha poi definito quel comportamento come un abuso di potere.
Un'altra testimonianza è arrivata da un'ex cameriera del ristorante del palazzo in cui risiedeva l'ufficio di Weinstein. La donna ha dichiarato che le ragazze, "molto giovani, sempre belle ed eleganti", venivano ricevute in incontri privati che prevedevano anche un tour degli uffici fuori l'orario di lavoro, incontri che duravano anche ore e da cui le ragazze uscivano sempre sconvolte "tanto da riuscire a malapena a finire il bicchiere che aveva iniziato a bere".

Lo scandalo intanto si allarga e rischia di coinvolgere altre celebrità. Nelle ultime ore una giornalista ha dichiarato che Matt Damon e Russell Crowe fecero pressioni sul giornale per cui lavorava per non far uscire un'inchiesta in cui si parlava di una donna che era stata pagata per tenere la bocca chiusa dopo un incontro sessuale "non voluto" con Weinstein. Il giornale però ha smentito le pressioni. I due attori non hanno ancora commentato.

Sicuramente nelle prossime settimane ci saranno altre rivelazioni e altre testimonianze. Intanto la Weinstein Company, che teme grosse ripercussioni sul piano lavorativo, ha licenziato Harvey Weinstein e poi si è chiusa nel silenzio.

AGGIORNAMENTO

Tra le donne molestate da Harvey Weinstein anche Asia Argento. L'attrice romana ha rilasciato un'intervista al New Yorker in cui ha raccontato la serata da incubo vissuta con il produttore.
Il brutto fatto è avvenuto nel 1999, quando l'attrice aveva 21 anni. Asia Argento ha dichiarato di essere stata invitata a un party della Miramax, ma una volta arrivata in albergo il party non c'era. Lì ha trovato solo Harvey Weinstein, che si è presentato in vestaglia e con una lozione per massaggi. L'attrice racconta di essersi rifiutata di fare un massaggio e che a quel punto Weinstein ha abusato di lei. "Gli ho detto di fermarsi ma mi ha spaventato", ha raccontato l'attrice, "Un uomo grande, grosso e grasso che ti costringe a fare cose che non vuoi. E' stato come un mostro di una brutta favola. Dopo quel giorno, quando lo guardavo negli occhi mi sentivo debole. Dopo la violenza, lui aveva vinto".

L'attrice ha raccontato anche di come mesi dopo Weinstein abbia continuato a chiamarla per offrirle regali costosi. Asia Argento ha riproposto questa stessa scena nel suo film Scarlet Diva, e ha raccontato che una donna, dopo aver visto il film, le ha chiesto se quell'uomo nel film rappresentasse proprio Harvey Weinstein. Lo stesso produttore, vendendo la scena, si è riconosciuto, e ha mandato un messaggio all'attrice in cui diceva "Ah ah ah, molto divertente!" e poi si è scusato per quanto accaduto.

Asia Argento ha dichiarato che ancora oggi si sente male a raccontare quanto accaduto quel giorno, e di avere un grosso rimpianto. "Il brutto di esserne stata vittima è che mi sento responsabile, perché se fossi stata una donna forte, gli avrei tirato un calcio nelle palle e sarei scappata", ha detto l'attrice al New Yorker, "Ma non l'ho fatto. Sono passati 20 anni da quella storia e se non l'ho fatta uscire prima è perché avevo paura. Lui ha fatto male a tante persone in passato".

Una storia davvero orribile.

lunedì 9 ottobre 2017

Blade Runner 2049 - la recensione

All'annuncio di un sequel di Blade Runner, il sangue si è gelato nelle vene di tutti i cinefili del mondo. Si può fare il sequel di un capolavoro come Blade Runner? La risposta di tutti è stata: no, a meno di un miracolo, non si può fare.
Denis Villeneuve ha fatto il miracolo.

Los Angeles, 2049, sono passati trent'anni da quando Deckard ha dato la caccia a Roy e agli altri replicanti ribelli. Nel 2049 i replicanti della Tyrell sono stati tutti ritirati e considerati fuori legge. Ci sono nuovi replicanti, quelli della Wallace Industries, perfezionati, più resistenti e ubbidienti, e soprattutto più longevi. Il Blade Runner K è sulle tracce degli ultimi Nexus della Tyrell, il "ritiro" di uno di questi lo porta a scoprire qualcosa che potrebbe cambiare tutto quello che si conosce dei replicanti, e di conseguenza anche il mondo. K inizia un'indagine che lo porterà a farsi delle domande che andranno a scavare anche dentro i suoi ricordi.
Non si può (e non si deve) svelare più di tanto della trama di Blade Runner 2049. La storia che sta alla base non è complessa ma il film ha bisogno dei suoi tempi e delle sue immagini per rivelare, mano a mano, ogni risvolto della storia.

Blade Runner 2049 non è Blade Runner, fare un paragone sarebbe alquanto stupido. Il film di Denis Villeneuve è un sequel ma è anche una espansione del film di Ridley Scott. Il regista canadese ha avuto l'intelligenza di non ripetere e non ricalcare stessi luoghi e situazioni. Villeneuve allarga lo sguardo, anche nelle tematiche filosofiche, proponendo interrogativi importanti su cosa rende umani, su quanto i ricordi incidano su una persona (o un replicante), su cosa è reale o no e se questo sia davvero importante quando si tratta di rapporti tra persone (il cane, vero o no, di Deckard nel film è un esempio lampante).
Se il film di Scott incastrava perfettamente la storia noir di un uomo, una donna, e alcuni replicanti, all'interno di un affresco sci-fi caotico, affollato e freddo, in Blade Runner 2049, Villeneuve fa quasi il contrario, inserisce una storia ampia in un contesto ancora più ampio, fatto di vasti scenari vuoti, caldi (anche quando piove o nevica) e "puliti", con tematiche che non riguardano solo i singoli ma il mondo intero.

Il punto di forza di Blade Runner 2049 è senz'altro la resa visiva. E' un film visivamente potente, impressionante e spettacolare. La regia di Villeneuve è molto precisa, elegante, coraggiosa, quasi architettonica. Regia, scenografie e fotografia, accompagnate da una musica perfetta (Hans Zimmer, sempre sia lodato), regalano allo spettatore delle immagini stupefacenti, mai fine a se stesse, che fanno davvero spalancare gli occhi dallo stupore per la loro bellezza. Per un film come questo è essenziale la visione al cinema, sul grande schermo, per farsi avvolgere dalla grandezza delle scene.

A rimanere nella mente non sono solo le immagini ma anche i personaggi. Il rischio era quello di passare tutto il tempo a chiedersi "ma quando esce Harrison Ford?". Rischio scongiurato. Il personaggio di K è affascinante, malinconico, romantico, e Ryan Gosling è praticamente perfetto, con il suo modo minimalista di recitare riesce a trasmettere tutto il senso di incompletezza del suo personaggio. Ottimo Harrison Ford, non ha avuto nessun problema a rimettersi nei panni, qui più sofferti e rassegnati, di Deckard. Ma Blade Runner 2049 è un film fatto soprattutto di donne, due su tutti: Ana de Armas e Sylvia Hoeks.
Ana de Armas interpreta Joi, assistente personale di K, ma anche qualcosa in più per lui. Tra i due c'è un rapporto romantico e tragico che in alcuni aspetti ricorda il film Her di Spike Jonze, ma in versione più futuristica. Le trovate visive che Villeneuve regala a Joi sono davvero originali e emozionanti. Completamente diverso il personaggio di Sylvia Hoeks, che va a riempire  quello che è forse l'unico vero buco del film: il villain. Jared Leto infatti non incide nel ruolo del cattivo, sia perché il personaggio è poco approfondito, sia perché lui non riesce a dargli quella misteriosa ambigua malvagità che sarebbe servita, ma a rimediare è Sylvia Hoeks con la sua Luv. La vera villan del film, fortissima, spietata ma non senza emozioni, Luv è uno dei personaggi che restano più impressi alla fine del film.

La bravura del regista nel creare questo "sequel impossibile" è stata quella di non essere solo sequel ma di essere anche complementare, di non copiare ma guardare a Blade Runner, di non ripetere ma espandere, di trasportare alcuni elementi chiave di quel mondo creando però una nuova strada, lasciando anche aperta la porta a un possibile terzo film, ma per farlo servirà un regista della bravura e dell'intelligenza di Denis Villeneuve.

Blade Runner 2049 è un gran film, vivo e spettacolare. Non si poteva chiedere un sequel migliore di questo.

venerdì 6 ottobre 2017

Come Ti Ammazzo il Bodyguard - la recensione

A Hollywood capita spesso che uno script finito nel dimenticatoio, inserito nella "lista nera delle sceneggiature", venga poi ripescato per essere portato sul grande schermo. E' il caso del film Come Ti Ammazzo il Bodyguard, action comedy diretta da Patrick Hughes (I Mercenari 3).

Michael Bryce (Reynolds) è una guardia del corpo da tripla A, impeccabile e preparatissimo, che vede la propria carriera, e di conseguenza la propria vita, cadere in disgrazia dopo che uno dei suoi clienti viene ucciso sotto i suoi occhi. Darius Kincaid (S.L.Jackson) è un sicario mercenario con più di 200 omicidi sulle spalle, ora rinchiuso in carcere, ma è anche l'unico che può incastrare Vladislav Dukhovich (G.Oldman), ex dittatore bielorusso sotto processo all'AIA per genocidio. Con l'Interpool compromessa, Bryce si ritroverà a dover scortare il suo "vecchio nemico" Kincaid fino ad Amsterdam.

Prima di tutto, prima di guardare il film, prima di giudicarlo, c'è qualcosa di essenziale da fare: cancellare dalla propria mente il titolo italiano. Come Ti Ammazzo il Bodyguard non è solo un brutto titolo, è anche piuttosto stupido e fuorviante rispetto al film. Molto meglio il titolo originale, The Hitman's Bodyguard, "la guardia del corpo del sicario", semplice e molto più aderente al film. Il motivo della scelta italiana è davvero difficile da comprendere, anche se si può immaginare che un titolo così cretino serva ad attirare più gente possibile, il problema è che così si promette un film dai "toni cretini", cosa che alla fine The Hitman's Bodyguard non è.
Sia chiaro, il film di Hughes non è un film d'azione serio, è una action comedy, un po' buddy movie, che si prende poco sul serio e propone una lunga serie di omicidi, sparatorie e sangue, ma all'interno ci sono anche momenti seri e argomenti tutt'altro che "cretini", come il tema dei genocidi.

The Hitman's Bodyguard non propone niente di nuovo, non è particolarmente originale nella storia ma può contare su un cast perfetto che riesce a tenere alti i toni per tutta la sua durata. La coppia Samuel L. Jackson - Ryan Reynolds funziona alla grande, con il primo che qui interpreta una specie di "best of" dei suoi personaggi passati, e Reynolds perfetto nel ruolo dell'agente perfettino (sembra quasi la parodia del suo ruolo in Safe House) che incassa i colpi del suo collega e rilancia. L'alchimia tra i due attori è il motore del film e probabilmente regista e sceneggiatori avrebbero dovuto sfruttarli più di quanto abbiano fatto. Gary Oldman è sempre un perfetto cattivo, riesce ad essere inquietante anche in un film dai toni più scanzonati. E poi c'è Salma Hayek, che ha poco spazio ma se lo prende tutto.

The Hitman's Bodyguard non è certo un film che lascerà un segno indelebile nella storia del cinema, e nemmeno nella mente dello spettatore, è altalenante e a volte troppo indeciso nei toni che vuole assumere ma è divertente, due ore di puro intrattenimento.