martedì 30 novembre 2021

Tick, Tick... Boom! - la recensione

Sono i primi anni 90 e Jonathan Larson è impegnato con il workshop newyorkese del suo musical, una space opera rock che sta scrivendo da otto anni e che spera sia il biglietto d'ingresso nel mondo di Broadway. Tutti i suoi idoli avevano raggiunto il successo prima dei trent'anni e per Jonathan l'orologio corre... tick, tick, tick... manca una sola settimana al suo trentesimo compleanno.


L'esordio alla regia cinematografica di Lin-Manuel Miranda non poteva che essere questo, l'adattamento della piece teatrale autobiografica scritta e interpretata dal geniale autore di Rent, che qui ha le sembianze e la voce di un Andrew Garfield in odore di premi. 

Andando avanti e indietro tra il palcoscenico, dove Larson racconta al suo pubblico della folle settimana che lo avrebbe portato a compiere quei fatidici trent'anni, e i flashback in cui lo vediamo scrivere un musical che non vedrà mai la luce ma che sarà in un certo senso davvero la sua rampa di lancio, Lin-Manuel Miranda dirige una vera e propria lettera d'amore sia all'autore, che è stato di così vitale importanza nel musical moderno, sia all'intero mondo del Teatro e in particolare del musical, capace di descrivere la realtà trasportandoti fuori del mondo reale, attraverso la musica, ma sempre parlando di temi molto veri.

E infatti assistiamo alla vita fallita (forse) di Larson che si sente già troppo vecchio rispetto al successo, che sente di aver perso ormai quel passaggio e di non poter recuperare. L'idea che i trenta siano gli anni in cui arrivare all'apice, è molto americana e poco italiana, così come la conseguente sensazione di fallimento che accompagna la consapevolezza che a volte la vita può andare diversamente, ma che la perseveranza ci farà raggiungere i nostri obiettivi. Una sensazione che molti hanno provato, anche in una società tanto diversa da quella americana come la nostra, dove l'età e la giovinezza hanno tutta un'altra concezione.


Allora perché Tick, Tick...Boom! risulta ugualmente tanto emozionante? Un po' perché se si conosce la triste storia di Jonathan Larson è impossibile non essere toccati dalla crudele ironia della vita e della morte, ma soprattutto perché tanto i personaggi quanto lo sfondo su cui si muovono, riescono ad avvincere lo spettatore e trasportarlo dentro la storia.

E poi, naturalmente, ci sono le musiche, che sono splendide e che è impossibile non amare durante e dopo la visione, confermando ancora una volta che Lin-Manuel Miranda è uno dei grandi del musical contemporaneo.

Gotham Awards 2021 - The Lost Daughter miglior film

Siamo a fine anno, inizia la stagione dei premi, e ieri è stato il turno dei Gotham Awards, premi dedicati al cinema indipendente (con un massimo di 35 milioni di budget).

A trionfare è stato The Lost Daughter, film con cui Maggie Gyllenhaal ha esordito come regista e che nella serata di ieri si è aggiudicato quattro premi, miglior film, regista esordiente, sceneggiatura (firmata dalla stessa attrice) e migliore interpretazione protagonista. Un titolo che potrebbe ritagliarsi il suo spazio durante tutta la stagione dei premi e anche agli Oscar 2022, soprattutto per la sceneggiatura.

Tra le novità di quest'anno, c'è quella dell'abolizione dei premi come migliore attrice e migliore attore, è stato deciso si non fare più distinzione di genere optando per un generico "miglior interpretazione protagonista" e "miglior interpretazione non protagonista". Il premio per la migliore interpretazione protagonista è andata comunque a un'attrice e un attore, mentre per la categoria non protagonista è stato premiato solo un attore. A vincere come protagonisti sono stati Olivia Colman (The Lost Daughter) e l'attore Frankie Faison (The Killing of Kenneth Chamberlain).

Aggiunta anche la categoria, sempre senza genere, "migliore interpretazione in una nuova serie", anche qui sono stati premiati un attore, Ethan Hawke (The Good Lord Bird) e un'attrice, Thuso Mbedu (The Underground Railroad).

Ecco i vincitori.

MIGLIOR FILM
The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal (Netflix)

MIGLIORE INTERPRETAZIONE
Olivia Colman in The Lost Daughter
Frankie Faison in The Killing of Kenneth Chamberlain

MIGLIORE INTERPRETAZIONE COME NON PROTAGONISTA
Troy Kotsur in CODA

MIGLIOR REGISTA ESORDIENTE
Maggie Gyllenhaal per The Lost Daughter 

MIGLIOR SERIE SOPRA I 40 MINUTI A EPISODIO
Squid Game (Netflix)

MIGLIOR SERIE SOTTO I 40 MINUTI A EPISODIO
Reservation Dogs (FX)

MIGLIOR SERIE NON FICTION
Philly D.A. (Topic, Independent Lens, PBS)

MIGLIORE INTERPRETAZIONE IN UNA NUOVA SERIE
Thuso Mbedu in The Underground Railroad
Ethan Hawke in The Good Lord Bird

MIGLIOR DOCUMENTARIO
Flee (Neon)

MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE
Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi (Sideshow and Janus Films)

MIGLIOR SCENEGGIATURA
The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal

MIGLIORE INTERPRETAZIONE ESORDIENTE
Emilia Jones in CODA

lunedì 22 novembre 2021

Ghostbusters: Legacy – la recensione [no spoiler]

È uscito da pochi giorni nelle sale italiane il nuovo capitolo della saga sugli Acchiappafantasmi più conosciuti al mondo, Ghostbusters: Legacy

Il film riprende con cura e devozione l’albero genealogico della famiglia Spengler e ci mostra la vita tutt’altro che priva di difficoltà della figlia di Egon (il compianto Harold Ramis, uno dei "papà" della saga cult originale), Callie, interpretata da Carrie Coon, e dei suoi figli: Trevor (Finn Wolfhard), alle prese con le pulsioni della sua invadente adolescenza, e Phoebe (Mckenna Grace), la più giovane dei due, che tanto somiglia al nonno, sia per la sua mente brillante, che per i suoi occhialoni rotondi e il suo sguardo deciso, ma anche per il suo singolare senso dell’umorismo. Queste tre pedine, estremamente diverse tra loro, si vanno ad inserire su una scacchiera sulla quale si gioca il destino del mondo, tra sciami sismici inspiegabili e trappole per fantasmi nascoste, aggiungendo ai toni brillanti e volutamente poco seri della trama originale, dei toni più cupi e nostalgici che solo la scomparsa di un personaggio tanto amato possono dare. A tutto questo poi si deve aggiungere una colonna sonora coinvolgente e dei personaggi secondari ben definiti, come il buffo compagno di classe, Podcast (Logan Kim), e il professore di scienze più improbabile e sbadato che si possa desiderare, Mr. Grooberson (Paul Rudd). Tutto questo messo insieme è Ghostbusters: Legacy. “Chi chiameranno?

Il film, della durata di 124 minuti, attinge direttamente all'immaginario della saga originale, vanta una trama ben architettata, che porta lo spettatore attraverso un dedalo che piano piano si districa, rendendo evidente ogni singolo collegamento possibile.
La performance corale del cast è senza sbavature, ed è sicuramente un punto di forza del film. Strabiliante, nonostante la sua giovane età, la deliziosa Mckenna Grace, che con semplicità ci presenta una versione in miniatura e tutta riccioli del caro Harold Ramis, e trasmette anche un senso di malinconia nel vederla interagire con Podcast, che ricorda molto un "piccolo Raymond Stantz" (Dan Aykryod nei film originali), quasi a voler sancire un netto passaggio generazionale che apre verso la possibilità di nuove avventure.

Jason Reitman, figlio di Ivan, regista dei primi due episodi, costruisce il ponte perfetto tra passato e presente, con un palpabile rispetto per i film del padre e tanto cuore, tenendo lo spettatore saldamente incollato alla poltrona con un film che stringe con forza la mano ai suoi predecessori, come solo un fan affezionato ed emozionato potrebbe fare.

Francesca Matteucci

giovedì 18 novembre 2021

The Green Knight - la recensione

Sir Gawain e il cavaliere Verde è uno dei più rilevanti e studiati fra i poemi cavallereschi del Ciclo Arturiano, principalmente a causa della sua ambiguità e complessità simbolica rispetto ad altri poemi dello stesso ciclo. Eppure, nonostante la sua importanza letteraria e storica, non era mai stato trasposto al cinema, dove il ben più famoso Re Artù, o la storia d'amore fra Ginevra e Lancillotto, la fanno da padroni.

Ci ha pensato il giovane regista David Lowery con un adattamento che non solo riesce a regalare uno spettacolo visivo imponente, ma restituisce in modo per nulla didascalico, e anzi con un simbolismo affascinante, la potenza del testo originale e quella del mezzo cinematografico.


Durante il banchetto di natale alla corte di Re Artù (che non verrà mai chiamato per nome durante l'intero film), mentre i valorosi cavalieri della Tavola Rotonda sono intenti a raccontare le proprie storie e a divertirsi, giunge un enorme cavaliere interamente verde, con un aspetto uscito direttamente dal mondo delle fiabe e del sogno. Il cavaliere verde propone un gioco: un cavaliere dovrà farsi avanti e affrontarlo, per poter conquistare la sua imponente ascia da guerra, ma con la condizione che qualsiasi colpo gli venga inferto, esattamente un anno dopo, lo dovrà restituire uguale al cavaliere nella sua dimora, la cappella verde. Il giovane Gawain, nipote del Re e senza alcuna storia di valore da raccontare, si fa avanti e affronta il cavaliere verde, decapitandolo. Ma quello, presa la sua testa, lascia la sala ricordando a Gawain che a un anno da quel giorno, avrebbe dovuto trovarlo per ricevere quel colpo. Un anno dopo, Gawain si mette in viaggio per ritrovare il Cavaliere Verde e affrontare il suo destino, consapevole che da questa impresa potrà derivarne grande onore, o la sua morte.

La trama è semplice ed è tipica dei poemi cavallereschi, ma la particolarità di questa storia è nel suo essere allo stesso tempo atipica, con il cavaliere che si mette in viaggio non per sconfiggere un nemico, bensì per affrontare la propria probabile morte, un viaggio alla scoperta di sé stessi che Lowery abbraccia pienamente e restituisce con tutta la sua carica di simbolismi, sempre più criptici via via che il viaggio di Gawain si avvicina alla sua conclusione. Se all'inizio il giovane si avvia fiero verso il suo destino, con un piano sequenza magnifico che evidenzia la figura solitaria e quasi mitica dell'eroe, man mano assistiamo a una lenta decostruzione e poi presa di consapevolezza da parte del protagonista rispetto alle sue debolezze e soprattutto alle sue paure, in un mondo dominato dalla magia ma anche dalla morte incombente.

La regia di Lowery è particolarmente inspirata per tutte le due ore del film, con scene che sembrano uscite direttamente da un dipinto d'epoca, altre che sembrano derivare da un mondo onirico fatato e fantastico, altre ancora pregne di grandissima intimità e intensità rispetto ai singoli personaggi. La magnifica colonna sonora di Daniel Hart fa il resto, immergendo lo spettatore nelle atmosfere di un Medioevo che non è la realtà, ma un luogo dove magia e sogno si intersecano con la realtà.


Assoluto protagonista della pellicola, Dev Patel, che si dimostra un attore molto interessante e capace di dare sfumature sempre diverse a personaggi fra i più vari. Credibile sia nei momenti di più fiera cavalleria che in quelli, molto umani, di paura e codardia che il personaggio di Gawain sperimenta, il tutto unito a una presenza scenica perfetta per un film in costume. Ma lo stesso si può dire di tutto il cast, da Alicia Vikander nel doppio ruolo della Lady del Castello e di Essel, la donna amata da Gawain (e il tema del doppio è ricorrente nel film) a Joel Edgerton in quelli del Lord.

È difficile esprimere a parole l'essenza di un film come The Green Knight senza raccontarne ogni singola inquadratura, o senza scadere nella becera retorica, ma la verità è che siamo di fronte a un film che è arte cinematografica allo stato puro, un film che utilizza l'immagine per narrare la sua storia e la psicologia del suo protagonista come raramente capita. 

Peccato non aver potuto goderne in una sala cinematografica.

mercoledì 17 novembre 2021

The Harder They Fall - la recensione

 Disponibile su Netflix il western The Harder They Fall, con un cast "all black".

Nat Love (Jonathan Majors) è un fuorilegge che ruba ai fuorilegge ma ha una missione personale che riguarda la sua infanzia: uccidere chi ha ucciso i suoi genitori. Quando ormai è convinto di averli trovati tutti, viene a sapere che il responsabile principale, l'uomo che ha premuto il grilletto, Rufus Buck (Idris Elba), sta per essere rilasciato dal carcere per riunirsi alla sua banda e riprendersi la città che ha fondato. Per Nat Love è il momento della vendetta ma vendicarsi non è affatto facile.

The Harder the Fall è un film western che parla di vendetta ma il film stesso, in un certo senso, è una vendetta, e lo dice fin dalla prima immagine, con la scritta: "Anche se gli eventi di questa storia sono di fantasia... Queste. Persone. Sono esistite". Il senso del film è racchiuso in questa frase, riprendersi il posto in un genere che non li ha mai visti protagonisti e che in passato, nei western classici, dei tempi di John Wayne, li ha proprio esclusi. Si tratta di revisionismo storico? In parte sì ma il personaggio principale della storia, Nat Love, è davvero esistito, è stato uno schiavo, poi un cowboy, ed è considerato un vero eroe del Vecchio West.

Il film, diretto dal produttore musicale Jeymes Samuel, qui al suo debutto come regista, ci porta in una specie di "mondo parallelo" in cui il Vecchio West è popolato solo da afroamericani, con i bianchi che hanno le loro città (tutte bianche, senza colori), sono molto distanti dal mondo vissuto dai protagonisti della storia e hanno ruoli marginali, quasi sempre da idioti, razzisti o persone timorose.
Fin dalle prime scene, è evidente che il regista ha deciso di puntare tutto sullo stile, i personaggi sono "cool" in tutto, modo di vestire, di muoversi, di parlare, e sono così per tutta la durata del film, in qualsiasi situazione, una scelta un po' impostata, quasi fumettistica, che però funziona. Anche la regia è molto legata allo stile ed è evidente, il tentativo di Samuel di rifarsi ai grandi registi dei western, Sergio Leone e Sam Peckinpah, e al più recente Quentin Tarantino di Django Unchained. Da un punto di vista stilistico, il risultato non è male, ci sono buone trovate visive, ritmo, il problema è che a lungo andare si ha la sensazione che più che omaggiare, Samuel abbia proprio cercato di copiare, in particolare Tarantino, cosa che si nota anche nei dialoghi. Il regista e lo sceneggiatore Boaz Yakin, hanno provato a rifare dei dialoghi "alla Tarantino", riuscendo a dismotrare solo che i dialoghi alla Tarantino li può fare solo Tarantino, ma questo fa venire fuori il vero punto debole del film: la sceneggiatura. La storia di base è buona, il film parte con il bel pretesto della vendetta, che nel western ci sta sempre bene, ma andando avanti questo si perde per piegare verso un sentimentalismo di cui non si sentiva il bisogno, per poi cercare di riprendere il tema vendetta sul finale ma senza affondare, anzi cercando di spiazzare lo spettatore con una rivelazione troppo debole e troppo facile. A farne le spese sono i personaggi principali, non si riesce ad empatizzare fino in fondo con Nat Love e le sue motivazioni, non basta una breve scena iniziale per far capire la sua voglia di vendetta, e anche il villain, il cattivissimo Rufus Buck, se ne parla come un diavolo ma nella storia si vede talmente poco che non si riesce a percepirlo come un nemico da temere.

Il cast fa il suo con quello che ha, bravo Jonathan Majors, Idris Elba fa quello che può con il poco spazio che ha, avrebbe meritato un personaggio con più scene e più spessore, Delroy Lindo fa sempre la sua bella figura, ma a spiccare più di tutti è sicuramente Regina King, l'attrice riempie sempre la scena, basta uno sguardo e cattura l'attenzione, ha il personaggio migliore del film ma è lei a renderlo migliore.

The Harder They Fall sembra un fumetto western, con scenografie stilizzate, costumi "cool", le pistole d'oro, ha la forma, gli attori giusti, una bella colonna sonora che spazia dall'hip-hop al reggae, purtroppo gli manca la sostanza. Forse il regista avrebbe dovuto pensare un po' meno allo stile e più alla sceneggiatura.

martedì 16 novembre 2021

Io Sono Babbo Natale - la recensione

Uscito nelle sale a più di un mese dal Natale, Io Sono Babbo Natale ci regala l'ultima apparizione cinematografica del grandissimo Gigi Proietti.

Ettore (Marco Giallini), uomo di mezza età dall'infanzia complicata e con una tendenza a delinquere che gli viene molto naturale, torna in libertà dopo sei anni di carcere scontati per una rapina per cui non ha mai visto un soldo, e per cui è stato l'unico a pagare della banda. Ettore ha una ex che non vuole più avere a che fare con lui, una figlia di 6 anni che non ha mai conosciuto, non ha una casa, ma in una fredda notte incontra un gentile e anziano signore, Nicola Natalizi (Gigi Proietti). Ettore lo segue con l'idea di derubarlo, Nicola lo accoglie in casa con il sorriso, ma quando Ettore entra in azione, scopre che l'uomo ha una cantina segreta piena di giocattoli. Nicola gli confida la verità: lui è Babbo Natale.

Il film di Edoardo Falcone rientra perfettamente nel filone delle classiche commedie natalizie, molto "all'americana", fatte di buoni sentimenti, buone azioni, messaggi positivi, per tutta la famiglia e che parla di famiglia, intesa non solo la famiglia biologica ma quella che una persona trova nel corso tempo. Il personaggio di Ettore è il classico ladruncolo apparentemente senza speranza a cui si apre un varco per la redenzione ma la sua storia, per quando molto semplice, ha il pregio di non seguire esattamente il percorso che lo spettatore potrebbe immaginare, Ettore arriverà a fare le cose giuste ma a modo suo. Nota di merito alle scenografie, la casa di Babbo Natale è deliziosa, e per gli effetti speciali, semplici e fatti molto bene.

Marco Giallini ha la faccia adatta al ruolo del truffaldino Ettore, sempre pronto a fregare il prossimo, ed è un perfetto sparring per il suo compagno di set, il grande Gigi Proietti, adorabile come Babbo Natale, porta grande umanità al personaggio e i suoi tempi comici sono inimitabili. Fra Proietti e Giallini c'è un'ottima alchimia, la coppia funziona, hanno una tempistica simile nella battuta, e portano entrambi addosso la classica romanità, un po' cinica, schietta, a "reazione veloce" e sempre molto ironica. Purtroppo si tratta dell'ultimo film di Gigi Proietti, uscito postumo (l'attore è scomparso a novembre 2020) e questo porta una particolare tristezza alla storia e anche un po' di commozione sul finale, la sua ultima scena nel film va oltre lo schermo e per un attimo Proietti non è solo il suo personaggio ma sembra proprio lui che saluta il suo pubblico. La dedica finale, "A Gigi", è un piccolo colpo al cuore, Proietti ci manca e ci mancherà.

Io Sono Babbo Natale è un film semplice, per tutti, non particolarmente originale nella trama, ma è scritto bene, con buone battute e tanta umanità, perfetto da vedere per prepararsi al Natale.

lunedì 15 novembre 2021

Red Notice - la recensione

Costato la mostruosa cifra di 200 milioni di dollari, arriva su Netflix l'action comedy Red Notice, il film più costoso mai prodotto dalla compagnia streaming.

Il profiler dell'FBI John Hartley (Johnson) è sulle tracce di uno dei più famosi ladri d'arte del mondo, Nolan Booth (Reynolds), che si trova a Roma per rubare una delle tre Uova di Cleopatra, pezzi d'arte rari, unici, e pregiatissimi. Sulle tracce delle Uova però c'è anche un altro ladro, il più bravo di tutti, il misterioso Alfiere (Gal Gadot). Hartley si ritroverà incastrato per furto, con il proprio nome rovinato, e finirà in carcere proprio nella cella di Booth. Tra i due nascerà una strana e traballante alleanza, alla ricerca del terzo Uovo, di cui nessuno conosce la posizione, per cercare di battere l'Alfiere.

Commedia d'azione itinerante, che a causa del Covid non ha potuto girare fisicamente in tutte le città che visita (in particolare a Roma, Castel Sant'Angelo è stato ricostruito in studio, tra scenografie vere e CGI), che punta tutto sul suo trio di protagonisti, Dwayne Johnson, Ryan Reynolds e Gal Gadot. Il regista Rawson Marshall Thurber, anche sceneggiatore, gli costruisce intorno una storia divertente, con molta azione, ottimi effetti speciali, con qualche buon colpo di scena, e una marea di citazioni, che non sono nascoste ma spesso proprio dichiarate, soprattutto dal personaggio di Reynolds. Il riferimento più immediato ed evidente è senza alcun dubbio il capolavoro di James Cameron True Lies, per lo stile, i toni e la scena di tango, c'è tanto Indiana Jones (il bunker dei nazisti, il numero su una delle scatole, la musichetta fischiettata, il ponte di legno che crolla), un po' di James Bond e Mission: Impossible, una dose di Lupin e del videogioco Uncharted. Il regista mette insieme un cocktail che, nonostante non offra niente di nuovo, funziona senza grossi problemi restando sempre su un sentiero sicuro, senza mai provare a fare qualcosa per stupire più di tanto.

Dwayne Johnson fa il Dwayne Johnson, con tanto di spot alla sua tequila, Ryan Reynolds fa il Ryan Reynolds, che invece fa pubblicità al suo gin, i due attori insieme formano una coppia "buddy", e Gal Gadot porta equilibrio tra i due. I tre attori divertono perché si capisce che si sono divertiti a girare il film insieme, e questo fa funzionare bene il trio.

Red Notice non inventa niente di nuovo, è tutto già visto, ma è mescolato nel modo giusto e alla fine offre un buon intrattenimento.

venerdì 12 novembre 2021

[RomaFF16] Belfast - la recensione

Nella primissima scena di Belfast è racchiuso già interamente il senso e il significato del film di Kenneth Branagh: la telecamera abbandona i colori della città moderna per entrare in una strada piena di bambini che giocano, donne che chiacchierano o richiamano i propri figli per il pranzo, uomini che lavorano; poi, d'un tratto, la violenza irrompe e si viene catapultati nel terribile agosto 1969, l'inizio di quella che fu una vera e propria guerra civile fra cattolici e protestanti per le strade di Belfast.

Arrivato a 60 anni, Branagh decide di abbandonare per un attimo gli adattamenti dei classici per dirigere un film intimo e personale, uno sguardo nei suoi ricordi e nella sua famiglia che lasciò l'Irlanda quando aveva circa 10 anni. Similmente a quanto fatto da Alfonso Cuaron in Roma, ma con più ironia e con lo stile teatrale che caratterizza Branagh da sempre, e che potrebbe da un lato emozionare i suoi fan e dall'altro far storcere il naso a chi non lo ama particolarmente. Nel bene e nel male Belfast è un film di momenti e situazioni, che sia il cercare di farsi notare dalla ragazzina che ci piace a scuola, la violenza rabbiosa dei gruppi di protestanti o di cattolici che si scontrano, o la bellissima scena in cui i genitori del piccolo protagonista ballano in strada. 

Il bianco e nero, qui, non è semplice vezzo registico, ma trasposizione del ricordo di bambino e il colore è lasciato esclusivamente al mondo del cinema, in un commovente omaggio alla magia e alla bellezza dei film e della sala cinematografica, capace di portarci in un mondo altro da noi, così come anche il Teatro tanto caro a Branagh.

Nel cast composto da nomi molto conosciuti a chi bazzica il mondo della recitazione britannico, come Jamie Dornan, Caitriona Balfe e la grandissima Judi Dench, spicca per genuinità e brillantezza l'esordiente Jude Hill. Impossibile non affezionarsi a questo ragazzino, alter ego del regista con tutte le sue peculiarità e unico punto di vista della storia.

Per quanto non si possa di certo definire Belfast un grande film o il film dell'anno (anche se potrebbe decisamente diventare il favorito per l'Oscar) non si può non rimanere affascinati dal ritratto intimo e malinconico di un momento storico allo stesso tempo terribile e magico, come lo sono tutti i nostri ricordi d'infanzia.

martedì 9 novembre 2021

Eternals - la recensione

Il terzo film della Fase Quattro del Marvel Cinematic Universe, diretto dalla regista premio Oscar Chloé Zhao, è un film veramente insolito, e non solo perché è quello con il voto più basso su Rotten Tomatoes, celebre piattaforma di aggregazione di recensioni.

Nel 5000 a.C. un gruppo di esseri immortali e dotati di superpoteri provenienti dal pianeta Olimpia, chiamati gli Eterni, sono inviati sulla Terra dai Celestiali, esseri semidivini, e per la precisione da uno di loro, Arishem, per proteggere il pianeta dai Devianti. Dopo averli sconfitti e aver contribuito grazie alle loro conoscenze al progresso dell'umanità, gli Eterni si dividono per poter vivere ognuno la propria vita fra gli esseri umani, finché il ritorno dei Devianti non li costringe a riunirsi per affrontare la minaccia.

Con un cast stellare, la regista cino-americana si trova a dover introdurre al grande pubblico non solo un gruppo di ben dieci nuovi personaggi, ma anche personaggi per lo più sconosciuti a chiunque non sia un fan hardcore dei fumetti Marvel. Sorprendentemente, anche se ovviamente con pesi diversi, tutti gli Eterni sono ben caratterizzati e si ritagliano il loro tempo sullo schermo e un posto nel cuore degli spettatori, anche grazie al già citato cast stellare che vede attori come Angelina Jolie, Salma Hayek, o Richard Madden dare volto e corpo a questi eroi più vicini a dei che ai soliti personaggi a cui il MCU ci ha abituato. E questo è il punto fondamentale, quello che, a seconda del gusto personale, può essere visto come il più grande pregio o il più grande difetto del film: non è il solito film a cui il MCU ci ha abituato.

Due ore e mezza di pellicola in cui il tono scanzonato e divertente che accompagna sempre gli eroi targati Marvel lascia il posto a un'atmosfera molto più solenne, cupa, "pesante", con pochissime scene divertenti ma soprattutto una grande attenzione a temi esistenziali come il senso della vita e della morte, il dolore, l'accettazione di sé. Anche le musiche sono solenni e vanno a incorniciare le riprese maestose del paesaggio incontaminato tipiche del cinema di Chloé Zhao, con un uso della CGI ridotta alle sequenze d'azione (tra l'altro veramente ben dirette e spesso spettacolari a livello coreografico).

Se ci si aspetta un film Marvel tradizionale si rischia di rimanere parecchio sorpresi, persino molto delusi. Se ciò che vogliamo da questo film è il solo divertimento, questi 156 minuti sembreranno interminabili. Se però si apprezza la sperimentazione tematica e il coraggio di proporre qualcosa di così radicalmente diverso rispetto ai soliti canoni, forse più vicini, almeno negli intenti, ai film della concorrenza DC come quelli di Snyder, allora ci si trova di fronte a uno dei migliori film del Marvel Cinematic Universe.

venerdì 5 novembre 2021

Freaks Out - la recensione

Può il Cinema Italiano tornare a fare film di genere?

Questa è una domanda che in moltissimi continuano a porsi, sfiniti dal continuo proliferare nel cinema nostrano di commedie e drammoni, senza possibilità di uscita. Non è necessariamente un male, in fondo le commedie sono nella nostra tradizione e continuano a incassare moltissimo, e i drammoni non sono sempre pesanti e se ne contano anche alcuni piuttosto riusciti. C'è però sicuramente l'esigenza di un certo pubblico, di nicchia forse, di esplorare un tipo di cinema più moderno e che possa rivaleggiare con le produzioni estere, in particolare quelle americane, dove al momento il sottogenere dedicato ai cinecomic, e in generale ai supereroi, spopola.


Gabriele Mainetti ci aveva già provato con enorme successo di critica e pubblico qualche anno fa, con quel Lo chiamavano Jeeg Robot che uscì in sordina e praticamente inosservato per poi pian piano, a furia di passaparola, diventare un vero e proprio cult, grazie anche alla presenza di un personaggio iconico come lo Zingaro. Adesso Mainetti raddoppia e se il suo esordio fu chiaramente autoriale e non proprio un kolossal, con Freaks Out cerca di fare il grande salto del film ad alto budget. Tuttavia non si perde minimamente l'impronta dell'autore che, anzi, appare più forte che mai in ogni aspetto della storia, dei personaggi e delle ambientazioni.

Un gruppo di persone con poteri straordinari e spesso bizzarri, un piccolo circo e un circo molto più grande, una Roma devastata dalla guerra e in mano ai nazisti, le deportazioni degli ebrei e la resistenza partigiana. C'è tutto questo in Freaks Out, che da un lato non ha paura di mostrare le sue chiare influenze fumettistiche (su tutte le altre è più che evidente come gli X-Men siano una ispirazione fortissima), e dall'altro rivendica a voce altissima l'appartenenza territoriale, non solo grazie all'uso del dialetto, ma soprattutto grazie al modo tutto personale con cui Mainetti mette in scena dinamiche tipicamente italiane e fortemente radicate nella nostra storia.

Da un lato puramente tecnico, il budget non è stato speso invano, il lavoro sulle location e gli effetti visivi è magistrale e non ha davvero nulla da invidiare a produzioni più blasonate. La fotografia in particolare è perfetta nel restituire un'atmosfera magica e irreale, a metà fra Pinocchio e Il Mago di Oz, con Mainetti che piazza una sequenza onirica di quelle che ricorderemo a lungo.

Il cast azzeccatissimo e per quanto i personaggi secondari siano poco approfonditi rispetto ai due protagonisti, riescono a restituire bene il carattere e le particolarità di ognuno. Molto brava la protagonista, l'esordiente Aurora Giovinazzo, ma ancora una volta a rubare la scena è il villain, personaggio patetico, sfaccettato e iconico, interpretato in maniera sublime dall'attore tedesco Franz Rogowski e che ci dà la definitiva conferma che se c'è una cosa che Gabriele Mainetti sa fare maledettamente bene è scrivere i cattivi.

Un film che probabilmente non piacerà a tutti, forse pecca un po' di alcune ingenuità nella struttura narrativa generale, ma che alla fine riesce perfettamente nel suo intento, trasportare lo spettatore in un altro mondo, affrontando anche temi importanti come la diversità, la Seconda Guerra Mondiale e le sue atrocità, e la scoperta di sé. Un esperimento riuscito, e di questi film ce ne vorrebbero davvero molti altri.

Eternals - nei titoli di coda il collegamento a uno dei prossimi film Marvel [ATTENZIONE SPOILER]

Eternals è uscito al cinema il 3 novembre e, come tutti i film Marvel precedenti, presenta delle scene nei titoli di coda che fanno da collegamento al futuro del MCU.

ATTENZIONE SPOILER!!! LEGGERE SOLO DOPO AVER VISTO IL FILM.

Una delle due scene è dedicata a Dane Whitman, il personaggio interpretato da Kit Harington, che come sappiamo diventerà poi Black Knight, il Cavaliere Nero. Nella scena (che non vi descriveremo nel dettaglio) si sente una voce interagire con il personaggio, in Italia non possiamo capire di chi si tratta perché la voce è doppiata, ma in una recente intervista realizzata da Fandom, la regista Chloe Zhao ha confermato che si tratta di Mahershala Ali, quindi il personaggio che parla è niente meno che Blade!

"Quella era la voce di uno dei miei supereroi preferiti, il signor Blade in persona. Blade, Blade, Blade, già!", ha detto una entusiasta Chloe Zhao, che però non ha potuto aggiungere altro: "Dovrete aspettare, non so quali siano i loro progetti, ma Mahershala è un tesoro. Sarà epico".

Anche Kit Harington si è detto emozionato: "È bellissimo. Chloé me l’ha detto un paio di settimane fa e sono rimasto a bocca aperta. Non sapevo che fosse quello il piano, perciò lo trovo emozionante".

La lavorazione di Blade è prevista per il prossimo anno, verso luglio, e sarà diretto dal giovane Bassam Tariq, regista indipendente con solo due film all'attivo.

giovedì 4 novembre 2021

The Guilty - la recensione

Nel 2018 usciva nei cinema europei il film danese Il Colpevole di Gustav Möller, nel 2021 è il regista Antoine Fuqua a firmare il remake americano, prodotto e interpretato da Jake Gyllenhaal e disponibile su Netflix.

Los Angeles è in piena emergenza incendi, Joe Baylor (Gyllenhaal) è un poliziotto "prestato" al turno notturno del centralino del 911 dopo essere stato sospeso dal servizio in strada. Joe è molto stressato, quasi rabbioso, vive un momento difficile in famiglia, odia lavorare al centralino, e la mattina dopo lo aspetta il processo per decidere sul suo futuro da poliziotto. La nottata procede tra le continue chiamate di gente in difficoltà o con problemi di vario genere, fino a una telefonata in particolare, quella di una donna, Emily, che finge di parlare con la figlia e gli fa capire di essere stata rapita. Joe intuisce che la situazione è serie e che deve agire in fretta per trovare quella donna e salvarla.

Girato in piena pandemia, Antoine Fuqua e lo sceneggiatore Nic Pizzolatto (True Detective) riprendono la forma e la struttura del film originale senza cambiare più di tanto, ma adattandola al contesto degli Stati Uniti, con i devastanti incendi di Los Angeles a creare un quadro e a definire il momento, e i fatti di cronaca relativi alla polizia USA a caratterizzare il background del protagonista. La particolarità della storia è che si svolge tutta in un solo spazio e vede praticamente un unico personaggio interagire con delle voci al telefono, una situazione che porta tensione alla storia ma che va maneggiata con grande sapienza per riuscire a riempire ogni spazio. The Guilty lo fa ma non sempre, nel film si riscontrano i problemi più ovvi che una storia impostata in questo modo può portare, ha momenti in cui l'attenzione è al massimo e altri in cui la storia sembra impantanarsi.
Fortunatamente, il film si appoggia sulle spalle larghe di Jake Gyllenhaal, che riesce a tenere la storia in carreggiata ogni volta che sembra iniziare a girare un po' a vuoto. Quella dell'attore è un'interpretazione molto convincente ed emotiva, riesce a trasmettere perfettamente la rabbia repressa ma pronta ad esplodere del personaggio e il coinvolgimento sempre più personale verso quella telefonata che ad ogni squillo cambia, si evolve in una direzione diversa, fino a diventare una specie di specchio in cui lo stesso protagonista trova consapevolezza.
Da vedere, se possibile, in lingua originale, le voci al telefono infatti sono di Riley Keough, Peter Sarsgaard, Ethan Hawke e la partecipazione di Paul Dano.

In The Guilty non funziona sempre tutto ma funziona abbastanza. A mancare maggiormente è forse proprio la mano di Antoine Fuqua, manca il suo timbro, il suo tocco in più, ma è un film che intrattiene bene, perfetto per una serata thriller sul divano, e può vantare un'interpretazione ottima di Jake Gyllenhaal che da sola vale la visione.