L'anima "burtoniana", anche nei lavori minori del regista di Burbank riesce in qualche modo ad infiltrarsi tra i frame delle sue pellicole: accadeva con il super criticato Alice in Wonderland e con la trasposizione di Dark Shadows. Questo accade anche con l'anomalo Big Eyes? A tratti sì ma non quanto ci si spetti. Non che un regista debba per forza rimanere fossilizzato su uno stile particolare o ad un solo genere, i problemi di Big Eyes sono ben altri.
Diverse sequenze, grazie anche ad una fotografia accettabile (a volte perfetta) e alla toccante interpretazione di Amy Adams, riescono a trasmettere il dualismo e la sofferenza di Margaret Keane, l'artista degli "orfanelli dai grandi occhi" succube del marito Walter Keane, sfruttatore e manipolatore interpretato da un Christoph Waltz decisamente troppo sopra le righe ai limiti del "macchiettistico".
Cosa non funziona nel film? In primis la narrazione, superficiale e tratteggiata da un'incoerenza di fondo che porta lo spettatore ad imboccare troppe strade a senso unico come se tutta la pellicola fosse composta da un confusionario collage di scene completamente scollegate l'una dall'altra. L'anomalia nel sistema produce paradossalmente un film scorrevole ma privo di qualsiasi pathos, quest'ultimo presente solo in una manciata di scene, scene il più delle volte approssimative in cui non viene mai approfondito nessun aspetto interessante della storia.
La scandita e ritmata colonna sonora stile anni '50/'60 composta dello storico compositore Danny Elfman questa volta non aiuta ed anzi, rimane asettica e impersonale.
Quanto Burton rimane quindi? Poco, risicato, ma pur sempre affascinante. Gli unici "Big Eyes" in definitiva rimangono quelli di una splendida Amy Adams.
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