giovedì 18 dicembre 2014

Lo Hobbit: la Battaglia delle cinque Armate - La Recensione

Dopo quattordici anni e circa diciotto ore di film, giunge alla fine il viaggio cinematografico nella Terra di Mezzo. Non era facile trasporre le opere di Tolkien su grande schermo e, per alcuni versi, Lo Hobbit era persino più complicato: diversissimo per toni, lessico e target di riferimento rispetto alla trilogia de Il Signore degli Anelli (di stampo epico-classico, là dove Lo Hobbit invece è una classica favola per bambini), si portava dietro un carico di aspettative enorme, dato il successo di critica e pubblico ottenuto da Peter Jackson precedentemente.


Il dato di fatto è che non si può guardare Lo Hobbit come si guarda Il Signore degli Anelli, ma nemmeno si deve ricercare la fedeltà al testo (ancora meno di quanto si dovrebbe fare di solito con una trasposizione). Ciò che rende Lo Hobbit estremamente riuscito è il lavoro che Jackson ha sviluppato in questi tre film, al di là del gusto personale, incastrando perfettamente la storia di Bilbo Baggins e della Cerca di Erebor, raccontata nel romanzo, ad un corpus mitico e "storico" ben più ampio, andando ad attingere non solo alle Appendici, ma anche agli innumerevoli Racconti che compongono l'enormità degli scritto del Professore Inglese.
La Battaglia delle Cinque Armate rende più evidente che mai questo incastro di storie, senza però diventare mai confusionario, riuscendo a mantenere l'equilibrio intatto tra i toni scherzosi del romanzo, sebbene anche qui si vada verso un finale più cupo, a quelli decisamente più epici e malinconici legati al ritorno di Sauron e al Bianco Consiglio.
La scelta di concludere La Desolazione di Smaug con un cliffhanger, tra l'altro subito risolto in una scena visivamente magnifica ed emotivamente molto cruda, era rischiosa, eppure funziona benissimo, donando alla seconda parte della trilogia un finale carico di phatos e a questa ultima parte un inizio di grandissimo impatto che va a chiudere le questioni in sospeso per proiettarsi verso quella parte di storia direttamente collegata alla Storia della Terra di Mezzo.
Si respira la sensazione di una minaccia imminente, ma non ancora così concreta da preoccupare realmente altri se non i Saggi, e allora ciò che realmente porta avanti la trama è il desiderio e l'avidità, perfettamente incarnate nei personaggi di Thorin e Thranduil, magistralmente interpretati da Richard Armitage e Lee Pace, personaggi che nelle loro molteplici differenze sono incredibilmente simili, personaggi pieni di sfaccettature e trasposti benissimo su schermo, anche da un punto di vista meramente visivo (in particolare Thranduil ha una presenza scenica fantastica). Di contro, Bilbo ha il coraggio e il potere di un cuore puro, pronto a tutto per la salvezza di quello che per lui è un amico, e Martin Freeman è un Bilbo perfetto, l'attore inglese ha una mimica facciale invidiabile e non poteva esserci scelta migliore di questa.
Sono realizzate benissimo le ambientazioni: Pontelagolungo è magnifica, così come le rovine della Città di Dale o gli ampi e vuoti saloni di Erebor.

La grande battaglia che dà il titolo al film e che occupa quasi un'ora delle tre complessive è molto diversa da quelle viste in precedenza, non ci sono sterminati eserciti di Orchi, non c'è quel senso di disperazione che pervadeva Il Signore degli Anelli. Lo Hobbit è un'opera molto diversa e i toni sono del tutto nuovi, più eroici in un certo senso, e maggiori sono gli scontri tra pochi personaggi piuttosto che tra schiere contrapposte. Spiccano quindi le coreografie dei duelli, molto scenografiche, in particolare quelle riservate agli elfi, con una spettacolarizzazione forse eccessiva soprattutto per quanto riguarda il personaggio di Legolas, ma che alla fine risulta comunque divertente.
Un cenno a parte merita la meravigliosa scena dell'attacco a Dol Guldur, in cui il Bianco Consiglio si contrappone a Sauron e ai Nove: tutto è perfetto, dagli attori coinvolti, alla musica, alle scenografie, ogni cosa contribuisce a creare il senso del potere emanato dai personaggi e della minaccia incombente su tutti, quella che poi porterà alle vicende successive. Inoltre Jackson fa un lavoro incredibile di ricerca sui testi e la scena è infarcita di citazioni tolkeniane che gli appassionati non potranno non apprezzare.

Purtroppo rimane il problema legato al personaggio di Tauriel: la sua storia non riesce ad appassionare, anzi, spesso risulta fastidiosa, e questo è imputabile principalmente alle scarse doti recitative di Evangeline Lilly, rese ancora più evidenti dalle interazioni con Lee Pace o Aidan Turner, che interpreta il nano Kili, entrambi bravissimi, o anche con lo stesso Orlando Bloom, ormai totalmente a proprio agio nel ruolo che lo ha portato al successo. Si è evitato comunque il disastro e la storia in sé è resa funzionale all'evoluzione del personaggio di Legolas e del rapporto tra lui e il padre Thraduil, cosa che però non riesce a salvare del tutto un personaggio che avrebbe dovuto beneficiare di una scelta di casting diversa per avere anche solo una possibilità.

Fortunatamente questo non intacca il risultato finale, che è quello di un film che riesce ad essere divertente e poetico allo stesso tempo, il perfetto compimento di un viaggio iniziato quattordici anni fa che si conclude esattamente lì dove era cominciato, con una scena finale bellissima e di una circolarità commovente.

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