mercoledì 19 gennaio 2022

West Side Story - la recensione

Si è parlato molto del West Side Story di Spielberg come di una "operazione" che per qualcuno non ha senso di esistere, perché l'iconico film del 1961, che ha vinto ben 10 oscar è, appunto, iconico. Ma la verità è che prima di essere il grande film diretto da Robert Wise, West Side Story era un musical di Broadway di grande successo che trasportava Romeo e Giulietta nella realtà degli anni '50, nella periferia di new York, in cui il territorio era diviso fra gang e dove gli immigrati venivano spesso discriminati.


Steven Spielberg ha sempre voluto girare un musical ed era innamorato di questo, ne adorava la colonna sonora fin da quando suo padre portò a casa il disco, voleva fare West Side Story e l'ha fatto, dedicandolo proprio a lui, a suo padre.

Se il film del 1961 era principalmente un film di coreografie, è innegabile che in questa versione viene prepotentemente fuori come Spielberg sia considerato - con ragione - uno dei più grandi registi viventi: le inquadrature, i colori, i giochi di luci e ombre che sembrano allungarsi sempre di più in una New York fumosa e devastata, uno scenario quasi post apocalittico, sono la cosa che innalza la storia da "semplice" storia d'amore e rivisitazione musicale della tragedia shakesperiana, ad opera vera e propria del regista/autore, che sceglie attentamente musiche, parole e immagini per raccontare l'America contemporanea e gli scontri etnici che sempre di più sono al centro della società moderna. 

America, canzone probabilmente più esemplificativa e simbolo del film, è quindi la chiave di lettura principale del discorso che Spielberg fa per tutto il film, spartiacque vero e proprio tra un prima, forse ancora illusorio, e il dopo in cui non rimangono altro che violenza, sangue e morte a spazzare via il sogno americano.



Le interpretazioni dei due protagonisti, per quanto ottime, vengono messe forse in secondo piano dall'insieme di immagini, colori e musica messi in scena dal regista, e a spiccare veramente è soprattutto il personaggio di Anita, interpretata da una Ariana DeBose meravigliosa non solo nel canto e nel ballo ma anche nella parte puramente drammatica della sua prova artistica, protagonista della scena più forte del film che colpisce come un pugno nello stomaco con tutta la sua violenza xenofoba e sessista e in cui il sogno americano si infrange e Anita rivendica la sua appartenenza con orgoglio e durezza.

Ben lontano dall'essere una semplice operazione nostalgica o un remake, West Side Story è la dimostrazione che nella mani di un grande regista come Steven Spielberg anche un classico del Teatro e del Cinema può dire qualcosa di nuovo e di attuale.

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