sabato 30 gennaio 2016

The Hateful Eight - la recensione

Tarantino ci ha preso gusto e dopo Django continua a esplorare il genere western. Ma a differenza del film con Jamie Foxx, The Hateful Eight è molto meno Sergio Leone e più squisitamente tarantiniano, un po’ Jackie Brown e molto Le Iene, rappresentate perfetto dell’estro e della genialità che hanno fatto di Quentin Tarantino uno dei registi più riconoscibili del cinema.

La trama è semplice, quasi un pretesto: durante una tormenta di neve, qualche anno dopo la Guerra Civile Americana, il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell), che sta scortando l’assassina Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) alla forca nella cittadina di Red Rock, raccoglie lungo la strada prima il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex-soldato nero dell'Unione ora divenuto un famoso cacciatore di taglie, e Chris Mannix (Walton Goggis), un rinnegato del sud che sostiene di essere il nuovo sceriffo della città. I quattro, a causa della neve, sono costretti a fermarsi in un rifugio appartenente a una certa Minnie, ora assente, dove ci sono già il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth), il cowboy Joe Gage (Michael Madsen) e il generale confederato Sanford Smithers (Bruce Dern). Tra mancanza di fiducia, tradimenti e inganni, sopravvivere non sarà un’impresa facile.

La sceneggiatura è praticamente perfetta, tre ore in cui non c’è un dialogo che non sia affascinante, che non tenga incollato allo schermo, che non delinei magnificamente ognuno dei personaggi, mai buoni, mai cattivi, o che non costruisca tensione. Racchiusi tra quattro mura, gli odiosi otto di Tarantino si conoscono, si svelano a poco a poco, ma mai completamente, in una sorta di giallo alla Agatha Christie in salsa western e con tanto sangue.  Ogni scena è dilatata e la camera non fa altro che accentuare questo aspetto, riprendendo spesso i personaggi in un’unica inquadratura, con uno stampo quasi teatrale.
La colonna sonora del Maestro Ennio Morricone accompagna e incalza, sottolinea i dialoghi senza mai essere invadente e senza mai nascondersi, fino alla meravigliosa scena finale dove scrittura, regia e musica esplodono in un’apoteosi del cinema tarantiniano al suo stato più puro.

C’è l’ironia, c’è la tensione, c’è lo splatter più puro e il gusto per quel vecchio cinema anni '70 che ha fatto grande il genere dello spaghetti western. Ma c’è anche molto altro, in tre ore di grandissimo cinema, come solo Quentin Tarantino sa regalare. Applausi.

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