lunedì 29 febbraio 2016

Oscar 2016 - Trionfa Spotlight. Ecco tutti i vincitori.

Si è tenuta nella notte l’88esima edizione degli Academy Awards, cerimonia che in generale ha rispettato i pronostici ma ha anche riservato qualche sorpresa.

Come era prevedibile, la protesta per gli "Oscar So White" è arrivata sul palco ma non come ci si aspettava. Il presentatore della serata Chris Rock ha parlato dell'assenza di attori neri tra i nominati e del bisogno di più diversità nei ruoli, ma allo stesso tempo ha ironizzato molto sulla protesta in sé e su come qualcuno (in particolare Will Smith e consorte, bersagli delle battute) ha esagerato nei toni.

La cerimonia è subito entrata nel vivo con i premi alle sceneggiature e l'Oscar alla migliore attrice non protagonista, andato a Alicia Vikander per The Danish Girl. Primo Oscar alla prima nomination. Poi si è aperta quella che potremmo chiamare la "sezione Mad Max: Fury Road", con il film di George Miller che si è portato a casa ben 6 Oscar tecnici, diventando il film più premiato della serata. Nel mezzo, "El Chivo" Emmanuel Lubezki si è portato a casa il suo terzo Oscar consecutivo, per la migliore fotografia di The Revenant.

Le sorprese sono arrivate dopo lo scontato e meritatissimo Oscar a Inside Out come miglior film d'animazione. Tutti si aspettavano (e speravano) di vedere Stallone salire sul palco per ritirare un premio, e invece l'Oscar come migliore attore non protagonista è andato all'ottimo Mark Rylance de Il Ponte delle Spie. Premio sicuramente meritato ma la delusione per il mancato Oscar al mitico Sly resta.
Uno dei momenti più attesi, soprattutto da noi in Italia, è stato quello dell'Oscar alla colonna sonora, a trionfare è stato il grandissimo maestro Ennio Morricone, per la colonna sonora di The Hateful Eight. Standing ovation per il maestro, visibilmente commosso. Morricone ha prima reso omaggio agli altri nominati, in particolare allo "stimato John Williams", che era seduto accanto a lui, e poi ha chiuso dedicando l'Oscar alla moglie. Un Oscar tanto inseguite dal maestro che arriva dopo l'Oscar alla carriera del 2007.
Gran finale con l'Oscar alla regia per Alejandro González Iñárritu, per The Revenant, secondo Oscar consecutivo, il regista aveva già vinto lo scorso anno. Migliore attrice protagonista la bravissima Brie Larson, per Room. E poi è arrivato il momento che tutti aspettavano da anni: Leonardo DiCaprio finalmente premiato con l'Oscar come migliore attore protagonista per il film The Revenant.

Sorpresa finale, Il Caso Spotlight si porta a casa l'Oscar come miglior film.

Ecco l'elenco dei vincitori.

Miglior Film
- Il caso Spotlight (Spotlight), regia di Tom McCarthy

Miglior regia
- Alejandro González Iñárritu – Revenant – Redivivo (The Revenant)

Miglior attore protagonista
- Leonardo DiCaprio – Revenant – Redivivo (The Revenant)

Miglior attrice protagonista
- Brie Larson – Room

Miglior attore non protagonista
- Mark Rylance – Il ponte delle spie (Bridge of Spies)

Miglior attrice non protagonista
- Alicia Vikander – The Danish Girl

Migliore sceneggiatura originale
- Tom McCarthy e Josh Singer – Il caso Spotlight (Spotlight)

Migliore sceneggiatura non originale
- Charles Randolph e Adam McKay – La grande scommessa (The Big Short)

Miglior film d’animazione
- Inside Out, regia di Pete Docter e Ronnie del Carmen (Disney / Pixar)

Migliori costumi
- Jenny Beavan – Mad Max: Fury Road

Miglior scenografia
- Colin Gibson e Lisa Thompson – Mad Max: Fury Road

Miglior trucco e acconciatura
- Lesley Vanderwalt, Elka Wardega e Damian Martin – Mad Max: Fury Road

Miglior fotografia
- Emmanuel Lubezki – Revenant – Redivivo (The Revenant)

Miglior montaggio
- Margaret Sixel – Mad Max: Fury Road

Miglior montaggio sonoro
- Mark Mangini e David White – Mad Max: Fury Road

Miglior sonoro
- Chris Jenkins, Gregg Rudloff e Ben Osmo – Mad Max: Fury Road

Migliori effetti speciali
- Mark Williams Ardington, Sara Bennett, Paul Norris e Andrew Whitehurst – Ex Machina

Miglior cortometraggio d’animazione
- Bear Story, regia di Gabriel Osorio Vargas

Miglior cortometraggio documentario
- A Girl In The River: The Price Of Foregiveness – regia di Sharmeen Obaid-Chinoy

Miglior documentario
- Amy, regia di Asif Kapadia

Miglior cortometraggio
- Stutterer, regia di Benjamin Cleary e Serena Armitage

Miglior colonna sonora
- Ennio Morricone – The Hateful Eight

Miglior canzone
- Writing’s on the Wall (Jimmy Napes e Sam Smith) – Spectre

Miglior film straniero
- Il figlio di Saul (Saul fia), regia di László Nemes (Ungheria)

sabato 27 febbraio 2016

Brooklyn - la recensione

Futuro, amore, famiglia, storia. Questo è quello che ci propone il regista irlandese John Crowley (Boy A) con il suo Brooklyn, delicato dramma storico di vita quotidiana che funge per certi versi come un trattato storico di un passato affascinante e sempre attuale.



Una misurata e maturata Saoirse Ronan veste i panni di Eilis, una giovane ragazza irlandese che decide di emigrare nel “nuovo mondo” per cercare lavoro e felicità, lasciandosi alle spalle la madre e la sorella ed un paesino troppo stretto per la sua idea di vita. A Brooklyn non troverà solo una nuova prospettiva di vita, ma anche l'amore. Durante la sua storia verrà tuttavia attratta nuovamente dalla sua passata vita, fatto che la metterà di fronte a delle inevitabili decisioni.

Brooklyn si presenta allo spettatore come un prodotto pulito, ben rappresentato e mai pretenzioso. Il bello di questo prodotto audiovisivo lindo e onesto risiede nella storia: per tutta la durata del film si avverte la sensazione di familiarità, come se un vecchio parente ci stesse raccontando la propria storia, una storia fatta di vita vissuta, fatta di dramma e realtà palpabile, senza mai imporre un punto di vista positivo o negativo sulla protagonista, egregiamente caratterizzata dalla candidata all'Oscar Saoirse Ronan.

Sul piano tecnico si nota una regia marcatamente televisiva, soprattutto nel primo atto, fatto che non penalizza in alcun modo la riuscita della pellicola, sostenuta a piene mani anche da un reparto scenografico impeccabile e affascinante.

Mat

venerdì 26 febbraio 2016

Room - la recensione

Presentato al Festival di Toronto 2015, Room, del regista irlandese Lenny Abrahamson, si è subito imposto all'attenzione della gente e della critica, vincendo anche il premio del pubblico.

Jack (Tremblay) ha cinque anni, da quando è nato vive in una piccola stanza insieme alla madre, Ma' (Larson), non è mai stato fuori, la sua vita si svolge da sempre tra quelle quattro mura, il lavandino, la lampada, il letto, le due sedie, una piccola finestra sul soffitto da cui si vede il cielo e nient'altro, una tv che gli mostra un mondo che per lui non esiste, e l'armadio dove si nasconde quando la porta blindata si apre e il "vecchio Nick" viene a far visita alla madre.
Dopo il suo quinto compleanno la madre gli racconta quella che a Jack sembra una brutta storia senza senso ma che per la madre è la realtà: che quando aveva 17 anni un uomo l'ha rapita e rinchiusa in quella stanza dove la tiene segregata da sette anni, una storia che apre la mente del bambino sul mondo esterno, un mondo fatto di persone, animali, alberi reali, e il passo decisivo che porta Ma' a decidere che è arrivato il momento di fuggire da lì.

Tratto dall'omonimo romanzo di Emma Donoghue (uscito in Italia con il titolo "Stanza, letto, armadio, specchio"), Room è uno di quei film che non lascia indifferenti, piccolo, sincero e potente. Si prova davvero angoscia nel vedere i due protagonisti segregati in quella piccola stanza, nel vedere una giovane madre resistere oltre il possibile e trattenere la disperazione per amore del figlio, e allo stesso tempo si prova apprensione e compassione per quel bambino ingenuo, puro e coraggioso per amore della madre.
Room è un film diviso in due parti, a fare da spartiacque la sequenza della fuga, che il regista ha saputo interpretare nel migliore dei mondi dando allo spettatore il punto di vista, spaventato e speranzoso, del piccolo Jack, in cui lo spettatore si trova a tifare, temere, sperare per lui. Una sequenza coinvolgente e di rara intensità. Nella seconda parte il film cambia completamente, ci si trova fuori dalla Stanza e tutto diventa speculare, sia per i personaggi che per lo spettatore, a non cambiare è l'intensità emotiva della storia.

Grande merito per la riuscita del film è dei due protagonisti, straordinari. Brie Larson regala un'interpretazione di altissimo livello, trattenuta, mai sopra le righe, attraverso gli sguardi riesce a comunicare tutto il dolore, la sofferenza, la violenza subita, il peso degli anni passati rinchiusa in quella Stanza, ma anche l'immenso amore di una madre per il proprio figlio. Sorprende e conquista anche il giovanissimo Jacob Tremblay nei panni del coraggioso piccolo Jack, solo 9 anni e la capacità di emozionare e commuovere come un attore esperto.

Room è un film intenso, uno di quei film che rimangono addosso.

Deadpool - la recensione

Dopo una delle campagne pubblicitarie più originali e travolgenti di sempre, è inevitabile arrivare in sala con aspettative altissime e ancora più facile sarebbe uscirne con una cocente delusione. Ma Deadpool, film dalla storia travagliata su un personaggio non tanto famoso dell'Universo Marvel, mantiene le promesse e travolge con un mix di ironia, black humor e azione a cui è difficile rimanere indifferenti.
Siamo di fronte a un film sulle origini di un supereroe, qualcosa di già visto, non particolarmente originale nei suoi spunti fondamentali, ma è la struttura narrativa a fare la differenza quando Wade Wilson, mercenario dal pungente senso dell'umorismo, ci racconta come è diventato Deadpool, mutante del tutto fuori di testa che rigenera i suoi tessuti e nel frattempo cerca vendetta.

La sceneggiatura è irriverente, il montaggio incalzante, passato e presente si alternano e tutto è estremamente divertente. Come già successo con Guardiani della Galassia, Deadpool ironizza su se stesso, mettendo in ridicolo la categoria dei film sui supereroi a cui appartiene, ma va anche oltre, trasformandosi in un vero e proprio film per adulti, sboccato e smaccatamente sessuale nelle sue allusioni, nascondendosi dietro la follia del suo protagonista, abbattendo continuamente la quarta parete e suscitando più di una fragorosa risata con alcuni geniali riferimenti metatestuali.

Estremamente curate le scene d'azione, anche queste diverse da quelle a cui questo genere di film ci ha abituati, accompagnate da una scelta musicale pop azzeccatissima e travolgente.
Doveroso un applauso a Ryan Reynolds, perfetto protagonista, chiacchierone e sbruffone, che dopo la dimenticabile prova data come Lanterna Verde, riesce a risollevarsi completamente mettendo i panni, o meglio la tuta di spandex, di un personaggio tanto complesso quanto irresistibile.

Film supereroistico, storia di origini, commedia romantica e black comedy, ma soprattutto due ore che volano via in un lampo e che lasciano la voglia irrefrenabile di averne ancora e ancora.

mercoledì 24 febbraio 2016

Il Ponte delle Spie - la recensione

Passato per lo più inosservato (è uscito infatti lo stesso giorno dell'Episodio VII di Star Wars), Il Ponte delle Spie è l'ultimo film di Steven Spielberg e la nuova collaborazione tra il regista e Tom Hanks.
Siamo in piena Guerra Fredda e il pittore Rudolf Abel è accusato di essere una spia sovietica. Contro il parere della sua famiglia e contro la stessa opinione pubblica, l'avvocato di Brooklyn James B. Donovan accetta di difenderlo, trovandosi suo malgrado invischiato in uno scambio di prigionieri tra il Governo degli Stati Uniti e quello Russo.


La prima parte del film è estremamente affascinante, impregnata di una certa atmosfera quasi alla Hitchcock e serve principalmente a presentare il protagonista. Donovan è un personaggio di una tipologia tipicamente spielberghiana, un giusto, un uomo incrollabile che ha fatto del suo mestiere, l'avvocato, uno stile di vita e una religione, che accetta di difendere qualcuno non perché convinto della sua innocenza, ma perché convinto che sia giusto garantire una difesa a chiunque. Tom Hanks è perfetto nel ruolo di uomo integerrimo, volto affidabile, con una incrollabile fede nella giustizia, ma a spiccare davvero nella prima ora di film è l'interpretazione controllata di Mark Rylance, ambiguo e affascinante, personaggio da cui ci si sente naturalmente attratti, proprio come succede al protagonista.
Da un certo punto in poi il racconto cambia e le atmosfere si fanno maggiormente narrative, la trama più articolata, i giochi di potere tra i due schieramenti più presenti. Qui esce fuori il talento di Spielberg come narratore per immagini, a colpire maggiormente sono proprio le singole scene e il modo in cui sono girate, quasi a voler esprimere attraverso il visivo ciò che sono i sentimenti dei personaggi di fronte alla Storia e alla crudeltà. A questo proposito è molto bella e significativa la ricostruzione della Berlino Est di quegli anni, con il Muro che iniziava a divenire realtà, la neve ad ammantare le ingiustizie in cui Donovan cammina quasi incredulo, fino ad un finale agrodolce e in un certo senso circolare.

Un film solido, potente e corposo, non certo un capolavoro, né il migliore che Steven Spielberg abbia mai girato, ma comunque un film di altissimo livello, e non è cosa da tutti.

martedì 23 febbraio 2016

Mad Max: Fury Road - la recensione

Trent'anni dopo il primo film Interceptor (Mad Max), George Miller torna sui suoi passi e riporta in vita la saga da lui creata con un nuovo film, Mad Max: Fury Road, presentato al Festival di Cannes 2015.

In un futuro post-apocalittico, un uomo di nome Max (Hardy), solitario e perseguitato dai ricordi, viene catturato per diventare un "donatore di sangue" per i Figli della Guerra, i guerrieri che seguono fedelmente Immortan Joe, il signore della guerra che controlla acqua e benzina, e quindi la colonia che lo segue.
Approfittando di una spedizione per recuperare carburante, l'Imperatrice Furiosa (Theron), Figlia della Guerra e serva di Immortan Joe fin da ragazzina, fugge con l'autocisterna, portando con sé le concubine del padrone, compresa la sua favorita incinta. Inizia così un serrato inseguimento nel deserto, durante il quale il diffidente Max stringerà un'alleanza con Furiosa per cercare di portare in salvo le ragazze, mentre tutti i signori della guerra li inseguono.

George Miller mette in piedi un'operazione di difficile collocazione, Mad Max: Fury Road non è un sequel e non è un remake, forse può essere considerato un reboot ma comunque è una definizione che gli va stretta. Per definire questo nuovo capitolo della saga bisogna forse usare un termine più vintage, è una "rivisitazione" del vecchio Mad Max. In questo film Miller è riuscito ad amalgamare con grande intelligenza il vecchio e il nuovo, trovando il giusto equilibrio che serviva per riportare al cinema una saga decisamente anni '70/'80.
Il film colpisce sotto tutti gli aspetti: quello estetico, grazie a una fotografia dai colori accesi e saturati; quello dello stile, molto punk-rock e volutamente esagerato; quello del ritmo, il film è una adrenalinica e spettacolare corsa senza sosta. Miller però non dimentica di inserire un significato, un messaggio, rappresentato dalla fuga di Furiosa e delle ragazze dalla violenza per cercare un'ipotetica terra di salvezza, fino a quando non ci si rende conto che scappare non porta a nulla e l'unico modo di fuggire davvero è quello di tornare indietro e cambiare il luogo e il modo in cui si vive.

A raccogliere l'eredità di Mel Gibson ci pensa il solidissimo Tom Hardy, un attore che ormai è quasi una garanzia. Il suo Max è chiuso, ruvido, violento, ma allo stesso tempo l'attore riesce a trasmettere la timidezza, la generosità e il tormento che il suo personaggio si porta dentro. Considerata co-protagonista ma in realtà è protagonista tanto quanto Hardy, Charlize Theron è semplicemente straordinaria, bella ma "rovinata", sia nell'animo che nel fisico, dalla cattiveria che la circonda, la sua Imperatrice Furiosa rimane stampata negli occhi e nella mente dello spettatore. Molto bravo anche un folle Nicholas Hoult.

Esagerato (a volte anche troppo), "old school" (anche in questo caso, a volte troppo), forse imperfetto nella trama ma decisamente coinvolgente, Mad Max: Fury Road è uno dei migliori film del 2015.

giovedì 18 febbraio 2016

The Danish Girl - la recensione

Presentato al Festival di Venezia 2015, e candidato a quattro premi Oscar 2016, arriva nelle sale italiane The Danish Girl, nuovo film di Tom Hooper.

Copenaghen, primi anni '20, Einar Wegener (Redmayne) e Gerda (Vikander), entrambi artisti, sono sposati e innamorati, tutti e due alle prese con le proprie carriere, lui paesaggista di riconosciuto talento, lei ritrattista che fatica ad imporsi. Un po' per gioco, un po' per necessità, Gerda propone a Einar di posare per lei, prima in sostituzione dell'amica/modella, poi lui stesso come modello ma non nei suoi panni, bensì in quelli femminili di Lili.
Da quel momento Einar comincia a sentire sempre più presente il suo lato femminile, come se indossare vestiti da donna abbia svelato qualcosa sepolto dentro di lui da tempo. Inizia così un lento mutamento che porterà Einar a scomparire per lasciare spazio alla sua vera anima, quella di Lili. Una trasformazione che, tra difficoltà e incomprensione, viene sostenuta da sua moglie Gerda, e che porterà Lili a un cambiamento radicale, cioè alla rischiosa operazione definitiva per cambiare sesso, mai tentata prima.

Tratto dall'omonimo romanzo di David Ebershoff, The Danish Girl racconta una storia vera, Einar Wegener, cioè Lili Elbe, la prima transessuale della storia e la prima persona a sottoporsi a un intervento di riassegnazione sessuale. Dopo 15 anni di tira e molla tra registi e produttori, a portarlo sul grande schermo ci ha pensato Tom Hooper (Les Misérables, Il Discorso del Re), e per farlo ha deciso di non sacrificare nulla del proprio stile: elegante, formale, "gentile". Un approccio che sembra togliere da una storia controversa tutto quello di potenzialmente scandaloso ma che in realtà è solo un fedele attaccamento al proprio modo di esprimersi. Quella di Hooper non è mancanza di coraggio nel mostrare l'aspetto più prettamente sessuale della storia (la scena dello specchio è tutto tranne che poco coraggiosa), ma semplicemente il modo che, secondo il regista, più si adattava al suo stile. Una scelta onesta che sicuramente rende il prodotto più disponibile al grande pubblico anche se in alcuni punti, a causa del "non voler osare troppo", manca l'affondo, e nonostante un ottimo crescendo drammatico ed emotivo, lascia il film e la vicenda di Lili troppo in superficie. L'aspetto che invece il regista coglie in pieno è la straordinaria e toccante storia d'amore tra Einar/Lili e Gerda.

Davvero ottimi i due protagonisti. Tutt'altro che semplice la prova affrontata da Eddie Redmayne, che aveva già dato prova delle sue capacità di trasformista. Nell'arco del film, lentamente Redmayne si trasforma sotto gli occhi dello spettatore, modifica i movimenti e le espressioni rendendoli più gentili e femminili, eccedendo forse un po' troppo alla fine ma senza mai cadere nella trappola delle "faccette", risultando assolutamente credibile nella sua trasformazione. Ad essere davvero indispensabile, anche al fine della prestazione di Redmayne, è però Alicia Vikander. La sua Gerda è forte, emozionante, l'attrice porta in scena una interpretazione potente che colpisce lo spettatore e lo aiuta anche a comprendere meglio il personaggio di Lili. Una interpretazione che, senza mai pretendere di rubare la scena, supporta in modo davvero eccezionale la performance del suo compagno di set.

Nonostante qualche tentennamento e l'eccessiva patinatura, The Danish Girl è un ottimo film, che racconta una storia difficile con garbo, una storia molto attuale, e se a un certo punto sembra perdere incisività in quello che doveva essere il tema portante del film, colpisce comunque al cuore con una toccante storia d'amore.

mercoledì 17 febbraio 2016

Il Caso Spotlight - la recensione

Nel 2001 la squadra giornalistica "spotlight" del Boston Globe, guidata dal nuovo arrivo Marty Baron, inizia un'indagine atta a svelare gli abusi sessuali perpetrati da oltre 70 sacerdoti della Arcidiocesi di Boston ai danni di minori e il ruolo delle Autorità Ecclesiastiche nell'insabbiare la vicenda.



Un po' documentario, un po' film d'inchiesta, un po' melodramma, il film rimane per tutta la sua durata  indeciso su cosa vuole realmente essere, senza riuscire ad andare mai davvero a fondo in nessuna delle tre caratteristiche principali: l'indagine è condotta in modo non sempre chiaro e non è facile districarsi tra nomi, date e luoghi, la componente prettamente giornalistica invece tiene bene ed è solida e sotto questo aspetto Spotlight è uno dei migliori film del genere. Dove però fallisce abbastanza clamorosamente è nella componente più puramente emotiva, in quanto per tutte le due ore non si riesce mai davvero ad empatizzare per nessuno dei personaggi, non si va mai a fondo in una introspezione psicologica, praticamente rimangono degli sconosciuti per lo spettatore, nonostante un paio di volte si cerchi di scuoterlo emotivamente con scene in cui è la loro coscienza più profonda a parlare.
L’intera pellicola è retta e portata avanti dal suo cast stellare e dalle interpretazioni di altissimo livello di Michael Keaton, Rachel McAdams e soprattutto un sempre più istrionico Mark Ruffalo, che dimostra ancora una volta il suo grande talento e la facilità con cui è riesce a spaziare tra i generi.

Non siamo di fronte a un grandissimo film, ma nemmeno a un brutto film, semplicemente Spotlight scorre via senza lasciare mai davvero il segno se non per la portata della vicenda di cui racconta.

lunedì 15 febbraio 2016

BAFTA 2016 - The Revenant trionfa!

Si sono tenuti ieri sera i BAFTA Awards 2016, quelli che vengono considerati gli "Oscar Britannici", poche sorprese e molte conferme su quelli che sono i protagonisti della stagione dei premi.

A trionfare è stato ancora The Revenant, di Alejandro Gonzàlez Inarritu, che si è portato a casa ben 5 premi, tra cui miglior film, regia e attore protagonista, assegnato a Leonardo DiCaprio.

Confermata come migliore attrice Brie Larson per Room. Kate Winslet (Steve Jobs) si è portata a casa il BAFTA come migliore attrice non protagonista (la categoria più in bilico in ottica Oscar 2016). Il premio come migliore attore non protagonista è stato invece assegnato a Mark Rylance per Il Ponte delle Spie (nella categoria era assente il favorito degli Oscar, Stallone).

Quattro premi tecnici per Mad Max: Fury Road, due per Star Wars: Il Risveglio della Forza. Ennio Morricone ha vinto il premio per la migliore colonna sonora grazie al suo lavoro in The Hateful Eight.
Miglior film d'animazione è stato assegnato a Inside Out, ennesimo premio vinto dal film della Disney/Pixar. John Boyega è stato scelto dal pubblico e premiato come Rising Star del 2016.

Ecco tutti i premi.

Miglior film
The Revenant

Attore protagonista
Leonardo DiCaprio (The Revenant)

Attrice protagonista
Brie Larson (Room)

Regista
Alejandro G. Inarritu (The Revenant)

Attore non protagonista
Mark Rylance (Il ponte delle spie)

Attrice non protagonista
Kate Winslet (Steve Jobs)

Musica originale
Ennio Morricone (The Hateful Eight)

Fotografia
The Revenant, Emmanuel Lubezki

Montaggio
Mad Max: Fury Road

Scenografia
Mad Max: Fury Road

Costumi
Mad Max, Fury Road

Trucco e acconciature
Mad Max: Fury Road

Sonoro
The Revenant

Effetti speciali visivi
Star Wars: Il Risveglio della Forza

Film non in lingua inglese
Storie pazzesche

Documentario
Amy

Film Animato
Inside Out

Outstanding British Film
Brooklyn

EE Rising Star (votato dal pubblico)
John Boyega

Frame Awards 2016: le votazioni

E' arrivato il momento di scegliere i migliori film della scorsa stagione. Come ogni anno, lo staff di Frame, dopo una lunga e sofferta consultazione, ha formulato delle nomination in cui abbiamo cercato di racchiudere nel miglior modo possibile i film più belli e meritevoli del 2015.

I film presi in considerazione sono quelli usciti in Italia dal 1 gennaio al 31 dicembre. E ora lasciamo che sia il popolo a scegliere i migliori.

Votate!



MIGLIOR FILM








 


MIGLIOR REGIA





 


MIGLIOR FILM ITALIANO



 


MIGLIORE ATTORE PROTAGONISTA





 


MIGLIORE ATTRICE PROTAGONISTA





 


MIGLIORE ATTORE NON PROTAGONISTA





 


MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA





 


MIGLIOR CAST





 


MIGLIOR FILM D'ANIMAZIONE



 


MIGLIOR COLONNA SONORA





 


MIGLIOR 3D



 


MIGLIORI EFFETTI SPECIALI





 


MIGLIORI COSTUMI





 


MIGLIOR TRUCCO





 


MIGLIORE FOTOGRAFIA





 


MIGLIORE SCENOGRAFIA





 


MIGLIORE SCENEGGIATURA NON ORIGINALE





 




venerdì 12 febbraio 2016

Zoolander No.2 - la recensione

Sono passati circa quattordici anni dall’uscita del primo, straordinario Zoolander, film che non riscosse particolare successo nell'immediato (forse anche a causa del clima post 11 Settembre in cui uscì) ma che negli anni è stato ricoperto da una patina di mito che ne hanno fatto uno dei più grandi cult di tutti i tempi.
Se da una parte il sequel di un film del genere ha vita facile al botteghino, dall'altra la delusione è dietro l’angolo, proprio perché superare una leggenda non è mai semplice.


Al contrario di quanto avviene nella realtà, nella finzione cinematografica Derek Zoolander non è più un mito, ma un ricordo svanito, un super modello del passato a cui è andato tutto male, la cui stupidità ha portato alla morte dell’amata moglie e alla perdita del figlio, portato via dai servizi sociali. Dopo aver cambiato nome ed essersi ritirato in una zona molto a nord nel New Jersey, Derek viene contattato dall'Interpool per infiltrarsi nel mondo dell’alta moda e scoprire chi sta uccidendo le pop star e perché, oltre a ritrovare suo figlio. Con lui, naturalmente, non può mancare il fido Hansel, anche lui caduto in disgrazia a causa di Derek.

La trama di questo No.2 scimmiotta apertamente i vecchi film di James Bond, è forse un po’ più debole di quella del primo film, ma non risparmia momenti di assoluta genialità, su tutti l’espediente con cui il villain storico Mugatu evade di prigione e torna prepotentemente nella storia, o ancora il grandissimo plot twist su cui si basa interamente il finale.
Ma se la trama, anche se non in maniera grave, a volte zoppica un po’, è sul lato della parodia che, ancora una volta, Zoolander trova il suo punto di forza. Sono passati anni e la società, così come le mode, sono profondamente cambiate; Ben Stiller lo sa benissimo e non si culla sugli allori sfruttando gag già rodate di sicura efficacia, ma sperimenta, va oltre, affonda a piene mani alla nostra realtà fatta di selfie sempre e comunque, di social network, hipster, alternativismo a tutti i costi, e teoria gender, senza dimenticare il mondo dell’alta moda con tutte le sue assurde manie e i suoi personaggi grotteschi.
Ben Stiller e Owen Wilson sono incredibilmente a loro agio e si muovono in questo mondo come se non vi fossero mai usciti, così come Will Ferrell che torna nei panni del perfido Mugatu, unico a smascherare a gran voce la stupidità di ciò che lo circonda ma, come sempre, esagerato in ogni suo gesto. Ottima anche Penelope Cruz, nuova aggiunta al cast, sensuale e divertente allo stesso tempo, e Cyrus Arnold nei panni del figlio di Derek.
E come era accaduto quattordici anni fa, completano il quadro una quantità enorme di guest star (Kiefer Sutherland e Sting su tutti), perché non sarebbe il mondo della moda senza volti noti a rappresentarlo.

Non era facile fare il sequel di un cult quale è ormai il primo Zoolander, ma Ben Stiller ci ha provato ugualmente e non ha fallito perché questo No.2, pur con qualche difetto, riesce a essere ugualmente geniale e divertente. Solo il tempo saprà dirci se diventerà a sua volta un cult, nel frattempo entrate in sala preparati perché ne uscirete con i crampi allo stomaco dalle risate.

giovedì 11 febbraio 2016

L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo - la recensione

Hollywood racconta sé stessa e attraverso la storia di Dalton Trumbo racconta uno dei periodi più controversi della storia americana.

Trumbo (Cranston) è stato uno dei più talentuosi sceneggiatori della storia del cinema. Negli anni '40 era lo sceneggiatore più pagato di Hollywood, Trumbo però era anche comunista, appoggiava gli scioperi ed era schierato con i sindacati. Tutto questo, negli anni '40 e '50 era visto come un comportamento anti-americano. Trumbo, insieme ad altri nove colleghi, venne portato davanti al Comitato per le attività Anti-Americane per essere interrogato riguardo le sue idee. Fedele a sé stesso, Trumbo si rifiutò di rispondere, finì in carcere, perse la casa, venne tradito da quelli che pensava fossero amici, venne "bandito" dagli Studios e il suo nome inserito nella Lista Nera di Hollywood, perdendo qualsiasi possibilità di lavorare. Senza perdersi d'animo, Trumbo continuò a lavorare, scrisse la sceneggiatura - che poi vinse l'Oscar - di Vacanze Romane e la fece firmare a un amico, si mise a scrivere script per film di serie-B firmandoli con nomi fasulli, trovò lavoro agli altri colleghi "reietti" (chiamati "i dieci di Hollywood"), vinse un altro Oscar, sempre sotto falso nome. La svolta arrivò dopo anni, grazie all'aiuto di due pesi massimi di Hollywood come Kirk Douglas e Otto Preminger, e con la cancellazione della Lista Nera.

Grazie a fiumi di alcol, tante sigarette e tanto fumo, Jay Roach, regista del film, di porta nella vecchia Hollywood. La ricostruzione delle abitudini, i vestiti, le acconciature, sono uno degli aspetti più curati del film. Nonostante lo spesso fondotinta sul volto del protagonista nella prima parte, l'aspetto estetico del film risulta davvero ottimo e convincente. Il film non ha grandi difetti, una storia interessante, una regia semplice e onesta, una ricostruzione curata, il punto in cui viene un po' a mancare è la sceneggiatura... curioso se si pensa che è un film dedicato a uno sceneggiatore.
Il film ha dei bei dialoghi, alcuni scambi di battute sono ottimi, la prima parte ha un bel ritmo e racconta bene l'inizio dell'incubo per i "dieci di Hollywood", poi però il film perde un po' incisività e manca il salto drammatico che avrebbe dato più concretezza, quella drammaticità che la storia di Trumbo avrebbe meritato. E' come se, a un certo punto, ci fosse stata una indecisione: dedicarsi più al Trumbo-sceneggiatore e alla sua lotta contro una enorme ingiustizia, o al Trumbo-uomo e padre? Roach ha scelto la seconda opzione, quella più facile ma anche meno interessante.

Se il film però regge per tutte le sue due ore di durata è grazie a un grande cast. Da una perfetta e odiosa Helen Mirren nei panni della pseudo giornalista di gossip Hedda Hopper, perennemente a caccia della "minaccia rossa" a Hollywood, a un divertente e consapevole produttore di brutti film di serie B interpretato da John Goodman, fino al pavido Michael Stuhlbarg, alla misurata moglie di Trumbo Diane Lane, e a Elle Fanning, nel film la figlia di Trumbo, che recita come un'attrice esperta, tutti davvero ottimi. A capo di questo folto gruppo di ottimi attori, un Bryan Cranston assolutamente trascinante, padrone della scena, nonostante d'aspetto non somigli affatto al vero Dalton Trumbo, grazie alla gestualità, alle espressioni e alla voce (da sentire in originale per apprezzarlo), riesce a calarsi nei panni di Trumbo in modo davvero convincente. Meritata la nomination all'Oscar per questo ruolo.

In sostanza, adatto soprattutto a chi ama i film che raccontano Hollywood dall'interno, L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo è un buon film che racconta una storia bella e interessante, ma a cui è mancato un passo decisivo per diventare un grande film. Merita la visione, per conoscere la storia di Trumbo e per apprezzare un ottimo cast.

mercoledì 3 febbraio 2016

1981: Indagine a New York - la recensione

Arriva in Italia con un incomprensibile ritardo di più di un anno A Most Violent Year, di J.C. Chandor, uscito negli USA il 31 dicembre del 2014. Altrettanto incomprensibile è inoltre il cambio del titolo, che da noi si trasforma in 1981: Indagine a New York.

New York, 1981, l'anno che le statistiche evidenziano come uno dei più violenti della città, Abel Morales (Isaac), un immigrato ispanico sposato con la figlia di un gangster, sta cercando di realizzare il "sogno americano" di riuscire ad espandere e imporsi con la sua piccola attività di trasporto carburante. I suoi affari sono però minacciati su due fronti: da una parte un procuratore che da due anni indaga su di lui per cercare di incastrarlo, dall'altra i continui e violenti furti dei camion pieni di gasolio che rischiano di metterlo in ginocchio.

Il titolo originale del film non è un caso, la scelta di sottolineare "l'anno più violento" serve a fare da contrasto con il modo di agire del protagonista del film. Abel è un non-violento, cerca in tutti i modi di non essere come chi usa la violenza per i propri fini, o come chi cerca la strada più semplice e spesso scorretta per sopraffare un avversario in affari. Elegante nel modo di vestire e pacato nel modo di porsi, Abel ci tiene a non essere come gli altri, coerente con se stesso e sempre alla ricerca della mossa più giusta e non quella più facile. Il regista sceglie la via introspettiva, rinuncia a mostrare la violenza (altro contrasto con il titolo), alle scene madri, alle urla e ai sensazionalismi. La regia è bella, semplice e pulita. Buona anche la fotografia, soprattutto nelle scene all'aperto mentre in quelle al chiuso a volte risulta un po' troppo scura. Impossibile non notare l'influenza di un capolavoro come Il Padrino e del mitico Michael Corleone nel personaggio di Abel.

A supportare il film ci pensano due ottimi protagonisti. Davvero molto bravo Oscar Isaac, mai così protagonista come in questo film, dimostra di essere assolutamente in grado di tenere tutto un film sulle sue spalle. Altrettanto brava Jessica Chastain, nei panni della bionda moglie del protagonista, anche se la sua bravura ormai non stupisce più, è un'attrice capace di interpretare al meglio qualsiasi ruolo, da protagonista o di supporto, e in qualunque genere.

A Most Violent Year è un film che si avvicina al genere crime-story senza abbracciarlo completamente, o meglio spogliandolo di tutta l'azione tipica del genere, ha il difetto di essere un po' freddo ma nel complesso è un ottimo film.